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La strenua difesa di Stalingrado

Le truppe sovietiche difesero fino all'ultimo Stalingrado, la difesero e si sacrificarono per la Madrepatria.

13 minuti di lettura

«[…] Con la perdita di Ucraina, Bielorussia, del Baltico, del bacino del Donetsk e altre aree noi abbiamo perso vasti territori. Questo significa che abbiamo perso molte persone, cibo, metalli, fabbriche e impianti. Noi non abbiamo più la superiorità sul nemico nelle risorse umane e nelle forniture di cibo. Continuare la ritirata significa distruggere noi stessi e anche la nostra Madrepatria. Ogni nuovo pezzo di territorio che lasceremo al nemico rafforzerà il nemico e indebolirà noi stessi, le nostre difese e la nostra Madrepatria. […] La conclusione è che è tempo di smettere di ritirarsi. Non un passo indietro! Questo dovrà essere il nostro motto d’ora in poi. Dobbiamo proteggere ogni punto di forza, ogni metro di suolo sovietico ostinatamente, fino all’ultima goccia di sangue, stringere ogni pezzo della nostra terra e difenderla il più a lungo possibile. La nostra Madrepatria sta attraversando tempi difficili. Dobbiamo fermarci e poi contrattaccare e distruggere il nemico. A qualunque costo. I tedeschi non sono così forti come dicono coloro che si son fatti prendere dal panico. Stanno spingendo le loro forze al limite. Resistere ai loro colpi adesso significa assicurarsi la vittoria nel futuro […].

stalingrado bombardataL’Ordine n.227 del 28 luglio 19421, del quale è stato riportato questo passo, non contiene solamente un’esortazione alla più accanita resistenza allo scopo di difendere la Rodina, la grande Madre Russia, dall’invasore nazista, ma anche crudeli disposizioni (che tuttavia si riveleranno efficaci), come quella di creare per ogni grande unità «da tre a cinque distaccamenti ben armati (fino a 200 uomini ciascuno)», disposti dietro la prima linea, incaricati di freddare qualunque commilitone avesse deciso di disertare o di non obbedire ad un ordine. Ne I giorni e le notti (1944) di Konstantin Simonov (1915-1979) l’ufficiale Babcenko intima al suo sottoposto Saburov di far rispettare l’Ordine n.227 e di mandare all’assalto le sue truppe per riconquistare una zona di Stalingrado. Il secondo gli risponde: «L’ho letto. Ma non intendo ora mandare gli uomini dov’è inutile mandarli, quando è possibile rioccupare tutto senza quasi avere perdite2». Gli ufficiali sovietici, tuttavia, si attennero in modo impeccabile alle disposizioni di Stalin. Soprattutto a Stalingrado, «l’estremo limite del mondo» per usare un’espressione di Simonov.

Nel quadro della seconda guerra mondiale, il Terzo Reich aveva avviato l’invasione della Russia all’alba del 22 giugno 1941. Un esercito imponente irrompeva in un territorio immenso: circa 4 milioni di soldati (di cui circa 3.050.000 tedeschi), 6.000 aerei, 7.000 cannoni e più di 600.000 cavalli utilizzati per il traino dei rifornimenti e dell’artiglieria. Questo moloch militare, del quale la 6° armata comandata da Friedrich Paulus (1890-1957) costituiva la punta di diamante, nelle prime fasi della guerra travolse l’Armata Rossa: in sole tre settimane di combattimento distrusse più di 6.000 aerei e 3.500 carri armati e uccise circa 2 milioni di soldati.

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La battaglia di Stalingrado ha come estremi cronologici il 17 luglio 1942 e il 2 febbraio 1943. Essa costituisce la svolta trionfale della “Grande Guerra patriottica” (Velikaja Otecestvennaja vojna). «Da Stalingrado in poi tutti sapevano che la disfatta tedesca era solo una questione di tempo»3: ma la vittoria richiese un alto tributo di morti. Lo scontro durò circa 200 giorni e lasciò sul campo prive di vita quasi 4 milioni di persone (di entrambi gli schieramenti), fra uomini, donne e bambini. La 62° armata, comandata da Vasilij Cujkov (1900-1982) dall’11 settembre (quel giorno succedette a Lopatin), divenne la protagonista assoluta di questa battaglia. Infatti, fu impegnata in un’eroica resistenza urbana durata all’incirca 5 mesi, fino alla fatale controffensiva sovietica dell’operazione Urano, che tra la fine del ’42 e l’inizio del ’43 avrebbe circondato e sconfitto le truppe di Friedrich Paulus.

Nel settembre del 1942 la 62° armata era ridotta a circa 20.000 combattenti e, insieme ad altre migliaia di soldati sovietici, doveva resistere alle centinaia di migliaia di soldati della 6° armata e della 4° Panzerarmee naziste (al momento dell’accerchiamento creato dalle armate sovietiche con il piano Urano, nel kassel si trovavano quasi 300.000 soldati della Wehrmacht). La Stavka riforniva con il contagocce le forze di Cujkov (rimpolpando continuamente la tanto vessata 62° armata) e il resto delle truppe agli ordini di Eremenko, il maresciallo incaricato della difesa del fronte di Stalingrado. L’esiguità degli aiuti forniti agli assediati era dovuta alle operazioni di ammassamento di armate da utilizzare nella grande controffensiva del piano Urano. Così, i soldati di Cujkov e degli altri ufficiali (comprese le milizie di civili arruolate dall’NKVD), si ritrovarono a dover difendere ad ogni costo una minuscola porzione di terra compresa tra le micidiali forze di Paulus e il Volga, «l’ultima linea di difesa davanti agli Urali»4.

battaglia-di-stalingrado-alinari-258A Stalingrado l’esiziale tattica della guerra lampo (Blitzkrieg) adottata dalla Wehrmacht si tramutò in una sfiancante guerra di logoramento (Zermurbungskampf) all’interno di una città dilaniata dai bombardamenti della Luftwaffe. Tra le rovine di questo nodo industriale lambito dal Volga per circa 30 km, centinaia di migliaia di soldati si affrontarono quartiere per quartiere, strada per strada, casa per casa, stanza per stanza. Vasilij Grossman nel suo diario annotava: «Una casa presa dai russi, una dai tedeschi. Come si può usare l’artiglieria pesante in una simile battaglia?»5. Ma la vicinanza tra i due schieramenti era ancora più promiscua: talvolta nello stesso edificio potevano trovarsi sovietici e tedeschi (chi ai piani superiori, chi ai piani inferiori) o addirittura in due stanze adiacenti. Gli ufficiali tedeschi coniarono un termine per definire questo nuovo tipo di scontro: Rattenkrieg, la guerra dei topi.

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Fame, sete e freddo (in inverno si raggiungevano tra i 20 e i 30 gradi sotto zero) spossavano grandemente i combattenti, sui quali si accanivano orde di pidocchi e le minacce delle più svariate malattie: dalla dissenteria all’itterizia. La lotta cavernicola riemergeva a circa trent’anni di distanza dal primo massacro mondiale. Arroccati per giorni in cantine o ai piani superiori di un edificio, molti soldati si cibavano di quello che riuscivano a procurarsi: croste di pane secco, carne cruda di cavallo morto o fieno bagnato, per esempio. Inoltre, Joseph Stalin rese la popolazione di Stalingrado una sorta di novella Ifigenia:

L’NKVD aveva requisito quasi tutte le imbarcazioni fluviali, destinandone una minima parte all’evacuazione dei civili. Poi Stalin, decidendo che il panico non era permesso, aveva rifiutato che gli abitanti di Stalingrado fossero evacuati attraverso il Volga. Questo, secondo lui, avrebbe costretto le truppe, in particolare la milizia arruolata sul posto, a difendere la città con maggiore accanimento.6

Quella dei sovietici si rivelò veramente una resistenza “accanita”. Per il generale Heinz Guderian (1888-1954) i fanti russi sono «quasi sempre ostinati difensor7; un comandante nazista riferiva a Paulus: «ogni caposaldo doveva essere conquistato individualmente. Il più delle volte non riuscivamo a tirarli fuori nemmeno con i lanciafiamme e dovevamo far saltare in aria tutto»8; un caporale tedesco annotava: «non potete immaginare come [i sovietici] difendano Stalingrado… come cani»9. Per mesi si lottò accanitamente per poche posizioni strategiche; nello specifico da sud a nord: il silo granario, la piazza Rossa, la stazione centrale (che cambiò “reggitore” 15 volte), l’aeroporto, il Mamaev Kurgan (un tumulo alto 102 metri), l’acciaieria Ottobre Rosso, la fabbrica d’armi Barricata, la fabbrica di trattori e il quartiere di Spartakovka. Le ultime due posizioni tenute nell’eroica resistenza di Stalingrado furono il Mamaev Kurgan e Spartakovka: sicuramente anche in questi due luoghi si trovava il celebre manifesto che recava le seguenti parole: «non cederemo mai la città in cui siamo nati. Creiamo barricate in ogni via. Trasformiamo ogni quartiere, ogni blocco, ogni edificio in una fortezza inespugnabile».10

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La città dove si svolse lo scontro titanico che decise le sorti della seconda guerra mondiale ha conosciuto tre denominazioni: Caricyn (dal 1598 al 1925), Stalingrado (dal 1925 al 1961) e infine quello attuale, Volgograd. Tra il 1959 al 1967 nella zona del Mamaev Kurgan, ovvero quel tumulo che pochi anni prima fu difeso (perduto e riconquistato) con grandissimo spargimento di sangue, fu costruito un memoriale per celebrare l’epica battaglia sul fronte orientale.

Durante i combattimenti Cujkov annotò: «ogni uomo deve diventare una delle pietre della città».11 I soldati della 62° armata di Cujkov, della 13° Divisione di Rodimcev e le varie altre forze sovietiche si arroccarono tra le rovine di Stalingrado e divennero “pietra” viva (o morta) sullo scheletro urbano che sarebbe assurto a ipostasi della riscossa sovietica (nel memoriale ci sono due pareti di roccia nelle quali sono incise figure di soldati sovietici). Resistenza e sacrificio per la Rodina. All’inizio del lungo viale del memoriale che conduce alla Piazza degli Eroi, vi è una statua scolpita nella roccia all’interno di una vasca d’acqua: il busto di un ideale homo sovieticus, tonico e muscoloso, a petto nudo e armato di un PPSh-41. Sotto di lui un’iscrizione in russo a grandi lettere, «non un passo indietro!».

La Madre Russia chiama alla battaglia
La Madre Russia chiama alla battaglia

1Il testo integrale dell’Ordine n.227 è disponibile dal 1988.

2Citato in F. Ellis, E le loro madri piansero: la grande guerra patriottica nella letteratura sovietica e postsovietica, Genova, Marietti, 2010, p.149.

3. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995, p.55.

4. Beevor, Stalingrado, Milano, BUR Rizzoli, 2000, p.138.

5. Beevor, op.cit., p.173.

6. Ivi, p.125.

7. Ivi, p.39.

8. Ivi, p.49.

9. Ivi, p.184.

10. Beevor, op.cit., p.128.

11. Ivi.,p.196.

di Pier Paolo Alfei.

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