Dal Belgio giunge un silenzio d’animazione su cui ogni parola si disperde, è il silenzio del La tartaruga rossa. Un racconto, quello diretto da Michaël Dudok de Wit, che dalla semplicità di un naufragio s’innalza a sottilissimo fiato d’esistenza che sigilla le labbra e spalanca gli occhi.
Il naufragio: un ritorno all’equilibro
Tutto ha inizio con una tempesta che ci scaraventa lontano dall’onnipotenza umana, riconducendo tutto ad un equilibrio di forme. È un luogo nuovo quello in cui siamo, una terra capace di ricondurci alla sacralità del silenzio.
Un piccolo uomo, piccolo come noi tutti siamo, salta, danza, muore ed urla su una calda spiaggia di colori e suoni guidati dalla magia. Ecco però che di fronte a noi si disperde, soffocato da immagini simili a quadri; una vera e propria letteratura di colori che s’imprime senza paura di incarnare le più controverse emozioni.
Il realismo magico nella semplicità
Pochi, i minuti; tante, le emozioni; nulle, le parole. La tartaruga rossa è un mare in tempesta che ondeggia tra l’onirico ed il reale. Poco sembra importare quanto ci sia di vero in questa storia d’incanto, essenziale è invece lasciarsi andare e divenire totalmente segnati dalla nuda semplicità con cui affonda nella carne.
Un realismo magico che dona profonde cicatrici; permettendoci di credere che una tartaruga che impedisce il ritorno a casa di un piccolo essere possa accrescere in noi un senso di mistero, un enigma che nasce con il film e continua con la vita, la nostra.
Poesia cromatica
Un rispetto della complessità guida l’intero racconto, e la fuga da quelle che sono le comuni concezioni della natura e dell’uomo delinea un viaggio che non ha paura di mostrare quel che il mondo è; sogni in bianco e nero, notti senza colore e giorni accecanti.
La loquacità di colori improvvisamente estranei al mondo, ma vicini a noi.