Pedro Almodóvar sa che ogni interesse sta nel non marcato. Non sussistono bianco o nero, giusto o sbagliato, ma solo svariate sfumature nel mezzo. Ecco perché «non esiste una storia d’amore felice», ecco perché parlare di mesure – o desmesure – nell’ambito dei sentimenti comporta solo una profonda forzatura di fondo, l’inopportunità di costringere entro confini netti ciò che di natura, da sempre, sfugge a qualsivoglia laccio o convenzione. L’amore spirituale procede di forza, e costantemente, con quello carnale: «¡Átame! in spagnolo significa légami con un legame fisico, ma anche con una dipendenza spirituale». Così era prima che il cattolicesimo imponesse la sua morale, così era persino nel secolo di quell’amor cortese che sedimenta nel pensiero ma si nutre di rapporti consumati.
Ricky (Antonio Banderas) orfano dall’età di tre anni e da allora in preda a una crisi di nervi continua incontra – in discoteca, luogo di toccata e fuga, di sesso senza amore – Marina (Victoria Abril), attrice porno assai drogata, prostituta ed ex vedette, pronta a concedergli una notte d’amore di cui di norma ci si dimenticherà all’albeggiare, con la federa macchiata di trucco e la bocca impastata dall’alcol. Ricky però non è un uomo normale, ha passato anni in una casa di cura, ha sviluppato tendenze ossessive capaci di rendere assai mobile l’asticella della sanità mentale. Si innamora di Marina, la pedina, la trova sul set di un filmaccio sexy-thriller e poi la sequestra. Secco, brutale, come Il collezionista di William Wyler che rapisce le donne allo scopo di farle innamorare di sé.
È un amour fou, l’adorazione di un fan portata all’ennesima potenza, una perversione che si manifesta nell’uso delle corde e del bavaglio per non far gridare, nel piacere ricavato – e ricevuto – dai molteplici maltrattamenti.
Quel che sembra assurdo a uno spettatore sempre più spiazzato perché imbevuto, in fondo, di dottrine “morali” è che Ricky riesca, nonostante la ritrosia iniziale, la rabbia, la paura, nel suo intento di farsi amare alla pari. Vuole «rifondare con lei una vita sulle basi della più ortodossa normalità» e lo fa, nonostante le corde, nonostante le percosse, nonostante la follia, le droghe, i regolamenti di conti. Lui, Marina e Lola (di lei sorella, l’emblema più classico dei saldi legami di sangue) che vanno a Madrid in auto, come una famiglia normale.
E qui sta tutta l’ambiguità del rapporto d’amore. Un’unione autentica in una società che si avverte fasulla, fatta di cliniche, set cinematografici, sesso consumato davanti a registi, addetti alle luci e tecnici del suono. Ma lo scandalo dell’insensatezza è la sessualità intesa come azzardo attraverso il quale l’uomo stabilisce la sua identità e la società gioca il suo ordine. Ogni storia d’amore è infelice a modo suo e allora il maschio dominante e la femmina sottomessa interpretano solo i ruoli anticonvenzionali di uno stravagante teatrino. Ciascun gesto “misurato” finisce per non avere più senso in un discorso sulle relazioni amorose in cui i sentimenti – qui marcati, altrove quasi sempre tacitati – sono in grado di spingerci oltre ogni limite e raziocinio.
Corpo e anima vanno a braccetto con «cuore e genitali» e in una realtà in cui le persone assumono lo stesso significato dei beni materiali, non c’è altra possibilità se non quella di appropriarsi, con tutte le proprie forze, delle cose di cui si avverte l’inappagabile bisogno: «L’interesse sta sempre nel conflitto: anche perché – ripete Almodóvar – non esiste una storia d’amore felice». Così è, anche se non vi pare.