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Lothar Malskat: restauratore (e falsario) di cattedrali

Spesso il confine tra artista, restauratore e falsario è molto labile. L'incredibile storia di Lothar Malskat ne è la prova.

13 minuti di lettura

Fino a non troppo tempo fa – la Seconda guerra mondiale è presa comunemente come spartiacque – il restauratore era una figura ibrida, confusa e unita spesso a quella dell’artista o dell’artigiano. Ciò ha portato per molti secoli a interventi di restauro invasivi che talvolta cambiavano la natura originaria dei manufatti, più o meno intenzionalmente. Sottile, infatti, è la linea che separa l’operazione restaurativa dalla falsificazione e l’arte del restauro ha dato vita a generazioni e generazioni di falsari eccellenti. Tra questi, impossibile non ricordare la storia di Lothar Malskat.

L’opera-feticcio e i segni del tempo

Fondamentale e ambigua, oltre alla figura del restauratore, è la definizione di che cosa sia un restauro, quali siano i suoi limiti d’azione e modifica. «Diventa necessario riflettere su cosa sia l’opera prima, durante e dopo un restauro», il problema principale sembra dunque essere quello dell’identità dell’opera e della sua conservazione, oltre che del suo riconoscimento. Non è trascurabile, infatti, l’interesse e l’attaccamento feticistico che talvolta si tende a proiettare su un oggetto, vedendo nella sua restaurazione una violenza intollerabile che ne inficia irrimediabilmente le caratteristiche basilari e identitarie, fisiche ma anche intrinseche. In questo caso, si assiste a una negazione dell’identità funzionale dell’opera in favore di un’identità simbolica, di reliquia idolatrata. Fine ideale del restauro è, al contrario, la rimessa in efficienza dell’opera, ristabilirne le funzionalità pratiche, intese in questo senso come estetiche e comunicative, per riconsegnarla a pieno titolo al suo scopo originale.

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La patina del tempo è prevista dagli artisti al momento della realizzazione di un’opera? Toglierla significherebbe produrre un falso storico, combattere l’inesorabile avanzare del tempo e, dunque, della storia? Se è vero che la patina restituisce a primo impatto tutta la vita dell’oggetto artistico, la sua memoria, è altresì corretto affermare che mina alle funzioni dello stesso e, conseguentemente, alla sua efficacia comunicativa. Fermo restando che riportare un’opera al suo stato originale è da considerarsi un’intenzione utopistica.

Roland Barthes e la nave Argo

Resa ormai salda e comunemente condivisa la necessità di un restauro il meno possibile invasivo e alterante, nel contemporaneo sorgono nuovi quesiti, a cui però difficilmente si riuscirà mai a rispondere. Primo tra tutti è quello che riguarda l’intenzione dell’artista: l’artefatto è stato realizzato e inteso con materiali unici e insostituibili, o la sostituzione degli stessi in caso di danneggiamento non altererebbe la sua identità?

Lothar Malskat
Claus Scheele e Lothar Malskat

A tal proposito, è interessante riprendere le parole di Roland Barthes (1915-1980) parlando di oggetti eminentemente strutturali. Barthes sfrutta l’esempio della nave Argo per analizzare le conseguenze filosofiche dell’abbandono del modello storicista nella valutazione delle opere d’arte. Ignorare la storia di un oggetto, spiega lo studioso, significa intenderlo come mera struttura e non come organismo. Il concetto di struttura è, appunto, illustrato attraverso il mito degli argonauti, ai quali fu ordinato dagli dei di compiere il viaggio per la conquista del vello d’oro con un’unica nave. L’inevitabile deterioramento di Argo fu risolto dai mitici esploratori mediante la sostituzione dei pezzi danneggiati, arrivando, nel corso della navigazione, a creare una nave sostanzialmente, e completamente, nuova: «Argo è un oggetto senza altra causa che il suo nome, senza altra identità che la sua forma».

Può, quindi, un oggetto essere considerato sempre lo stesso se le sue componenti materiali cambiano? In alcuni casi, l’oggetto è semplicemente «la declinazione materiale di un concetto astratto che è esso stesso opera d’arte», perciò la forma, e a maggior ragione la materia, diventano secondarie. In quest’ottica, il restauratore si occuperebbe della continuità dell’efficacia comunicativa dell’opera. Ma non è chiaro se lo stesso pensiero possa legittimamente essere applicato a dipinti o sculture antichi, per i quali la dimensione compositiva fisica, materiale è, spesso, tutt’altro che secondaria.

Gli esordi di Lothar Malskat

Esemplare della commistione di figure quali l’artista, il restauratore e il falsario è la vicenda di Lothar Malskat (1913-1988), attivo negli anni centrali del secolo scorso. Malskat era ancora uno studente dell’Accademia di Belle Arti quando si trasferì a Berlino e si presentò come apprendista al noto restauratore e pittore Ernst Fey. Questi intuì immediatamente il talento del giovane e accettò di prenderlo con sé, fargli studiare la storia dell’arte, insegnargli i trucchi del mestiere, così da poterlo poi coinvolgere – o meglio, sfruttare – per i suoi scopi illeciti.

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Poco dopo l’arrivo del nuovo aiutante, Fey decise di intraprendere un viaggio per la Slesia, regione storica dell’Europa centrale, alla ricerca di commissioni. Si fece accompagnare dal figlio Dietrich e da Malskat, dando il via a un sodalizio che, tra amore e odio, sarebbe durato decenni e avrebbe fruttato fama e denaro in abbondanza, ma non al povero Lothar. Nella primavera del 1937 ricevettero un incarico che li avrebbe immortalati nell’Olimpo dei restauratori: ripulire e restituire le pitture gotiche del duomo di Schleswing, in Germania, già ritoccate nel 1888. Una volta rimosse le ridipinture moderne, tuttavia, si presentò di fronte a loro, con profondo orrore, solo l’intonaco grigio, gli affreschi gotici erano scomparsi. La distruzione di un monumento nazionale di tale levatura avrebbe significato la fine della carriera di ognuno di loro, oltre che un risarcimento milionario. Decisero allora che il talento di Lothar Malskat avrebbe trovato il proprio spazio e che il giovane avrebbe creato dei capolavori gotici, dopodiché la straordinaria scoperta sarebbe stata abilmente pubblicizzata e il loro successo sarebbe stato immenso.

Malskat si mise dunque al lavoro, mettendo a frutto gli insegnamenti del maestro Fey e la propria straordinaria abilità tecnica. Preparò il fondale e abbozzò delle figure compatibili con il periodo e lo stile gotico. Il lavoro, durato diversi mesi, coronò la carriera di Ernst Fey il quale, tuttavia, non si preoccupò minimamente di dividere le lodi e le attenzioni ricevute con il vero artefice del “miracolo”. Contrariato, Malskat decise però di tacere e non inimicarsi Fey, in quanto era consapevole che la scoperta della truffa avrebbe danneggiato molto più profondamente lui, l’esecutore materiale, rispetto al superiore.

Ritorno al falso e riscatto di Lothar Malskat

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, i percorsi dei tre restauratori di separarono e Lothar finì in Norvegia come soldato pittore. Una volta tornato in Germania, incontrò Dietrich Fey, il quale gli propose di ritornare a lavorare insieme, questa volta nell’ambito della realizzazione di falsi dipinti. È da sottolineare il fatto che il mercato dell’arte del dopoguerra non fu particolarmente attento alle possibili truffe e accettò larga parte delle opere che venivano o ritornavano alla luce come autentiche.

Fonte: silvae

Ben presto, però, gli si presentò l’opportunità di ritornare al lavoro di un tempo: la chiesa di Santa Maria, a Lubecca, era stata gravemente danneggiata da un incendio nel 1942 e necessitava di essere riportata all’originario splendore. E con “lavoro di un tempo” non si intende solo quello di restauratori. Il calore del fuoco non aveva lasciato intatto praticamente nulla degli antichi affreschi e i due decisero di replicare il metodo sperimentato a Schleswing. Ancora una volta, però, il riflettore del successo brillò unicamente sulla famiglia Fey. Nella primavera del 1952, Lothar Malskat arrivò al limite della sopportazione. Decise allora di scrivere diverse lettere, confessando di essere l’autore materiale di tutti i lavori. Tuttavia, dichiarò:

Le mie figure […] non sono falsificazioni. Lo sono divenute soltanto per colpa delle spiegazioni, intenzionalmente false, fornite in proposito da Dietrich Fey. Con queste spiegazioni false io non ho mai avuto nulla a che vedere.

La reazione sperata tardò ad arrivare e Malskat si preoccupò di diffondere la propria storia anche al di fuori della Germania. Venne allora interrogato dalle autorità, ma diversi manovali con i quali aveva lavorato furono pronti, forse dietro compenso di Fey stesso, a contraddire la sua testimonianza. Egli, tuttavia, aveva con sé delle fotografie scattate durante le varie fasi dei lavori, che testimoniavano in maniera incontestabile in favore della sua versione. A un’analisi approfondita i suoi lavori risultavano evidentemente dei falsi; inoltre, in fase di “restauro”, l’artista inserì degli anacronismi – non è chiaro se l’abbia fatto volontariamente per poter provare la paternità delle opere, oppure per errore – come i tacchini, presenti in Europa soltanto a partire dal Cinquecento.

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Come spesso accade in queste situazioni, gli esperti implicati in questa faccenda, che si erano lasciati andare a giudizi entusiastici, lodi senza fine per quegli straordinari ritrovamenti, non accettarono le parole e le accuse dell’uomo e si ribellarono all’evidenza. Il 7 ottobre 1952, Malskat sporse ufficialmente denuncia contro se stesso e contro Dietrich Fey, in un atto estremo di rivendicazione della giustizia. Le pitture vennero cancellate dalle pareti delle chiese vittime dell’operato dei due, oltre che del padre di Dietrich. Nonostante la condanna a diciotto mesi di carcere, Malskat trovò numerosi committenti, i quali, al di là delle operazioni truffaldine riconobbero il suo straordinario talento artistico.

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Rebecca Sivieri

Classe 1999. Nata e cresciuta nella mia amata Cremona, partita poi alla volta di Venezia per la laurea triennale in Arti Visive e Multimediali. Dato che soffro il mal di mare, per la Magistrale in Arte ho optato per Trento. Scrivere non è forse il mio mestiere, ma mi piace parlare agli altri di ciò che amo.

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