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«Mandami tanta vita» di Paolo Di Paolo: azione e giovinezza ai tempi del fascismo

3 minuti di lettura

Storia di un’esistenza ordinaria che desidera scontrarsi con la Storia di un libero intellettuale, Mandami tanta vita vale al trentenne Paolo Di Paolo un posto tra i cinque finalisti al Premio Strega.

«Mandami tanta vita» trama

Febbraio 1926. Moraldo, studente di lettere arrivato a Torino per sostenere una sessione d’esami, si accorge di aver scambiato la sua valigia con quella di uno sconosciuto. Grazie ad un annuncio su La Stampa scopre che le sue caricature, i libri di filosofia, persino le mutande ingiallite, sono nelle mani lunghe e bianche di Carlotta, fotografa di strada. “Eterno indeciso, eterno fallito”, Moraldo questa volta non vuole sbagliare: convinto che l’incontro con la fotografa dal cappotto verde sia uno di quelli che ribaltano le viscere e il destino, la segue fino a Parigi, meta del suo ultimo reportage fotografico.

Proprio a Parigi si trova Piero Gobetti, intellettuale antifascista realmente esistito, fondatore di varie riviste e di una casa editrice poi chiusa da chi, a un uomo che punti dito e penna contro Mussolini, pretende di far fare la fine di Matteotti. Così, “l’italiano che non si arrende alle allucinazioni collettive”, la cui integrità morale gli vieta di scendere a patti con sette e camorre, è costretto ad abbandonare la moglie Ada e il figlioletto Paolo, e diventare un esule a Parigi. Con l’Italia negli occhi, con il bisogno di farlo crescere tutto italiano, il pussin (il pulcino, suo figlio), si strappa le radici natie dai piedi e passa le giornate elemosinando qualche metro quadrato, un buco nel caleidoscopio della ville lumière da far esplodere a suon di tasti di Olivetti che battano parole come “rivoluzione, demagogico, trasformismo, Stato, programma!”

Mandami tanta vita

Moraldo e Piero, l’inetto e l’attivista, condivisero, anni prima, un’aula universitaria. Nel corso di una soporifera lezione sul purgatorio dantesco, Piero, all’epoca studente di giurisprudenza imbucato a lettere per sport, sfidò il professore con sfacciata baldanza. Moraldo, presente alla scena, nutrì immediata antipatia verso il giovane giurista occhialuto. Eppure, benché troppo sfrontato, troppo affamato, troppo vivo, Piero incarna tutto ciò che Moraldo vorrebbe essere: un uomo dalla ragion pratica ben radicata. Così, tremante come un pussin cresciuto, scrive due lettere alla redazione del giornale di Piero, ma non riceve alcuna risposta.

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Il racconto di due giovinezze

È tra i cieli di piombo di Torino e Parigi che si articola Mandami tanta vita, il racconto due giovinezze. La prima, quella di Moraldo, proietta l’idea nella storia, vive nell’incertezza gli anni in cui la gola si stringe dinnanzi alla vertigine del possibile. Le vie da imboccare per agire, per intervenire e riscrivere, anche a matita, la Storia, sono infinite. Qual è quella giusta? Dove si va per la rivoluzione?, sembra chiedere Moraldo. Si va dov’è andato Piero, l’esile giovanotto che è stato capace di inventare una possibilità di impegno in un tempo di grande crisi. Di Paolo fa rivivere una vita breve ma vissuta a cento all’ora come quella di Gobetti. In controluce delinea anche la vita in bilico di Moraldo, e, seppur con discrezione, insinua che Moraldo siamo noi.

Moraldo è il giovane studente che si alza alla mattina e fissa dubbioso i calzini da indossare, e alla fine li sceglie spaiati. È lo studente che conosce Kant e Hegel come conosce gli amici del calcetto, ma di se stesso, dei suoi sogni e delle maniere per farli vivere, ignora ogni cosa.
Tutti ci siamo svegliati Moraldo e, presi dall’ansia di vivere, abbiamo fatto troppi passi, o troppo pochi, quelli sbagliati.
E l’amore, dove lo metti? Perché quando ci si innamora non c’è filosofia che tenga. Non serve a nulla serve sapere che l’amour fou di Romeo e Giulietta chiede la morte, come ricompensa; la muta esplosione che uno sguardo fa nel cuore la impari vivendola, nei libri ne trovi solo una pallida imitazione.

«Mandami tanta vita»: il coraggio di prendersi tempo

Mandami tanta vita

Devi andare, devi uscire, devi aver coraggio di chiedere al tempo di bruciarti. Piero brucia: strati di pelle gli volano via come i fogli che riempie di parole rosse e ruggenti. A volte gli sembra che le gambe gli chiedano di gettare i libri all’aria e correre, da Torino a Timbuctù, di ubriacarsi come voleva Baudelaire, di vivere: “Devo andare e vivere, si è ripetuto cento volte, come Romeo incontro a Giulietta, devo andare a vivere”. Queste due giovinezze, dubbiose e magmatiche, hanno come comune denominatore un tempo inospitale; un tempo in cui se si ha il coraggio di chiedere la vita, ci si sente rispondere che la si deve volere a metà. Si deve patteggiare per la vita, altrimenti è meglio scappare e cercarla altrove.

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Piero e Moraldo sono i giovani di ieri, di oggi e di domani. Sono i ventenni che nel duemilatredici si sentono rubare il futuro dalla Storia fatta male, per gioco; sono i ventenni che si sentono dire che i sogni si potranno realizzare nel duemilaecredici. Ci sono cambiamenti turbolenti in atto, ora come allora, ma se non resistiamo, se non costruiamo qualcosa che ci protegga dalla violenza dell’attualità, la vita si spegnerà. Non si può diventare ostaggio delle cattive notizie, non ci si deve lasciar travolgere dal cinico motto del “tanto non cambia nulla, quindi non faccio niente”. Piero insegna che nonostante l’ingratitudine di un tempo difficile dobbiamo camminare, sentire, agire, e così mandare a noi e ai posteri, tanta tanta vita.

 


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