Nascita e libertà: una prospettiva filosofica

Dalla newsletter n. 26 - marzo 2023 di Frammenti Rivista
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Sin dalle sue origini, è noto che la filosofia ha assunto il ruolo di essere capace di condurre, praticamente, un’esistenza ben vissuta. I Greci ne sono stati maestri e, nelle parole di Socrate riportate da Platone nel Fedone, si trova l’immagine che, in maniera definitiva, ha fissato la concezione antica (ma poi moderna e contemporanea) del sapere più alto di tutti: filosofare è imparare a morire. Per ben vivere, insomma, è necessario sapere e apprendere a morire, e a farlo nel migliore dei modi possibili. E questo per una semplice ragione: che l’orizzonte della finitudine umana, e dunque ciò che lo differenzia essenzialmente dall’animale, è sancito non solo dalla sua mortalità, ma dalla consapevolezza di essa. Eppure, lungo tutto il corso del pensiero occidentale, sotterraneamente e al fianco di questa tendenza dominante, una riflessione sul ruolo del polo opposto a quello della morte – la nascita – è venuta sviluppandosi. E questo per una semplice ragione: se rivalutata a partire dal punto di vista della nascita, l’intera esistenza umana assume un nuovo volto, e con essa i caratteri fondamentali che le sono attribuiti, primo fra tutti quello della libertà.

Se è vero infatti che la morte è un nulla che inghiotte e porta con sé ciò che incontra, e che quindi la libertà – nella forma in cui è stata spesso descritta – è un nulla che annulla le diverse scelte possibili, l’umano in quanto nato è anzitutto un essere radicato al suo luogo di provenienza. Ovvero, il grembo materno. Prima di essere mortale, è un essere che ha un luogo, un luogo subìto passivamente, perché non da lui deciso, ma che lo decide.

Difatti, in un certo senso sono passivo rispetto alla mia nascita, non ne sono il soggetto o l’artefice, ma la subisco e continuo a portarla con me come un passato che non mi è concesso di recuperare, ma che mi vincola, potendo, nonostante ciò, affermare la mia libertà proprio a partire da esso. Questa passività inaggirabile è l’indeterminatezza che fonda ogni presente e si mantiene al di là della coscienza nella forma dell’impersonalità, dell’anonimia: ovvero come qualcosa che ci precede senza poter essere recuperato. Come scrive il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty a proposito di questo tema: «posso cogliermi solo come già nato», o anche, è quell’«acquisizione originaria che impedisce alla mia esperienza di essere chiara per se stessa […] (che esperisco) come modalità di una esistenza generale, già votata a un mondo fisico e che defluisce attraverso di me senza che io ne sia l’autore».

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Ciò ha un’ implicazione estremamente significativa rispetto a come pensiamo l’immagine della libertà. Essendo anzitutto nati prima di essere mortali, gli esseri umani non sono una pura potenza nullificatrice, come credeva Jean-Paul Sartre, ma un ancoraggio al suolo fisiologico – il nostro corpo – che ne vincola e determina i margini d’azione. La libertà è anzitutto radicata nel corpo che noi siamo, un corpo che ci è dato, che non è infinitamente plasmabile, e che trova la sua origine nel corpo materno, nel grembo della madre. Ecco un significativo ridimensionamento del concetto kantiano di a-priori: non sono spazio e tempo le forme pure della conoscenza, ovvero le condizioni di possibilità del nostro essere al mondo, ma anzitutto l’esser provenuti da madre, l’esser nati.


Illustrazione di Lucia Amaddeo

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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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