I Rimini Protokoll sono un pluripremiato collettivo tedesco che dal 2002 calca le scene internazionali, proponendo un originale teatro-documento. Fino al 20 gennaio al Piccolo Teatro Studio di Milano il loro ultimo lavoro Nachlass. Pièce sans personnes (già a Roma nel settembre 2017) affronta un tema per certi versi scabroso: il nostro rapporto con la morte.
Gli “Esperti del quotidiano”
I Rimini Protokoll desiderano sconvolgere le aspettative e per questo propongono punti di vista inusuali. Le loro performances più che rappresentare, “presentano” delle storie, spesso in spazi reali. Lo spettatore, liberato dai vincoli formali della tradizionale macchina teatrale, ascolta testimonianze di non-attori, cioè “Esperti del quotidiano”, che offrono uno spaccato della propria realtà, e la performance sembra farsi da sé. Anzi, lo spettatore è chiamato a farsi co-autore e a riflettere sulle dinamiche della condivisione partecipata.
Abbiamo già parlato di loro sulla nostra rivista lo scorso giugno, quando erano a Milano con Europa a domicilio, un gioco interattivo e teatro politico intorno al concetto di Europa e ora ecco Nachlass, nato in collaborazione con il teatro Vidy di Losanna, dopo un’indagine di due anni.
Nachlass, lasciare dopo
Il sostantivo tedesco Nachlass significa “lascito, eredità” e la performance è una riflessione sul nostro prepararci alla morte, uno dei tabù dell’epoca contemporanea, tutta proiettata al godimento dell’hic et nunc. Solo talvolta il nostro presente viene scalfito da vicende che costringono a fermarci: anni fa in Italia era stata la storia straziante di Eluana Englaro e la lotta giudiziaria del suo coraggioso padre, e più recentemente la vicenda di dj Fabo e il dibattito parlamentare intorno alla legge sul biotestamento. Si tratta di un tema scomodo che divide le coscienze in tutta Europa, sugli scranni dei Parlamenti e nelle aule di tribunale. Ma ai Rimini interessa soprattutto l’umanità, e dunque hanno cercato persone che fossero a loro modo “esperte” del tema, vissuto sulla propria pelle.
Il risultato è una pièce senza personaggi. Perché questa volta gli “Esperti” del quotidiano sono in parte già morti. Li sentiamo soltanto come voci registrate, talvolta li vediamo in video o fotografie, e la loro assenza permea ogni spazio.
Il Piccolo Teatro Studio Melato ha cambiato totalmente fisionomia. Veniamo introdotti nella “scena” attraverso un passaggio buio, un accesso labirintico che permette di lasciare alle spalle la nostra realtà e immergerci nel mondo altro della performance. Accediamo a un corridoio, sui due lati si affacciano otto porte chiuse. Sopra di noi, uno schermo ovale riproduce il planisfero, che si illumina a intermittenza: non sono luci di Natale, né stelle pulsanti, ma il conteggio (simulato) delle vite che in questo momento si sono spente nel mondo. Mentre noi siamo qui, altrove qualcuno che lottava con la morte non ce l’ha fatta.
Otto vite in otto stanze
Ogni porta cela una stanza, che è un “contenitore di storie”. I nomi degli “autori” sono sulle targhette esposte all’esterno. Siamo noi a scegliere liberamente l’ordine di accesso. Si entra alla spicciolata, massimo sei per volta, e la porta alle nostre spalle si chiude. Queste otto stanze riproducono esattamente un lacerto di mondo che rappresenta i protagonisti di cui ascoltiamo le voci registrate, per cinque-dieci minuti: il salottino vintage di un’anziana signora, una camera da letto, un ufficio, perfino una mini-moschea, e così via. Ogni volta che la porta si apre per accoglierci, è una sorpresa. Le voci si presentano con affabilità, ci invitano a toccare le loro cose, aprire i cassetti, frugare nelle scatole, guardare le fotografie sparse. Poco a poco le inibizioni si sciolgono: le stanze cessano di essere “dispositivi teatrali” e diventano nidi accoglienti e “reali”, e i visitatori sanno come comportarsi, ospiti e voyeur al tempo stesso, attraverso un incontro virtuale che esplora l’intimità di persone assenti che non conosceremo mai, e che forse oggi sono già morti. Eppure mentre ci regalano i lacerti delle loro biografie, non sono più estranei e ci chiamano a una complicità nuova, con momenti molto toccanti.
Chi sono questi “esperti” della morte? Quali motivi li spingono a prepararsi all’idea del futuro della propria assenza? L’anziana novantenne vede nella morte una partenza naturale e ci squaderna le proprie fotografie, attimi raggelati di una vita, passati eppure molto belli, ma c’è anche chi sfida la morte ogni giorno con il proprio paracadute e ha già predisposto ogni cosa, pensando al proprio funerale. C’è poi un simpatico signore turco, immigrato a Zurigo, che segue l’operatore delle pompe funebri per sapere le tappe che dovrà affrontare il suo corpo fino al riposo finale a Istanbul, culla delle sue origini. Ognuno riflette sulle tracce che vorrebbe aver lasciato di sé, a volte racchiuse negli oggetti, nei luoghi o negli affetti. C’è Gabrielle, che ragiona sul futuro del mondo, preoccupata di un’eredità che non vanifichi gli sforzi di una vita dedicata alla crescita e allo sviluppo dell’Africa, per cui ha creato una fondazione benefica. Colpisce in queste quattro storie la spontanea naturalezza, la profonda umanità nell’affrontare il tema.
Ed è anche la nota dominante delle altre quattro storie, forse più toccanti perché affrontano il tema del fine-vita. Un papà quarantenne colpito da una rara malattia genetica ci mostra le sue esche per le trote, le mosche effimere, specchio della propria vicenda, e nel suo pacato “testamento” alla figlia, a cui si rivolge come se fosse qui con noi, vuole essere ricordato pieno di energia e di vita. Una coppia di Stoccarda ha pianificato la morte in Svizzera e ci invita a un pensiero critico lontano dall’ideologia. Fra le stanze più toccanti, c’è quella di Nadine, affetta da sclerosi multipla, che ha deciso di «divorziare dal proprio corpo» per porre fine alle sofferenze, forte della propria libertà di scelta. La sua confessione non ha nulla di straziante o patetico, anzi si sorride per la leggerezza aerea dei ricordi, pur nella gravità del tema. E infine in uno studio bianco e asettico siamo invitati da Richard ad ascoltare in cuffia il suo punto di vista di scienziato e a interrogarci sulla condivisione del nostro destino di esseri umani, segnato dalla naturale degenerazione delle cellule neuronali. In questa stanza siamo obbligati a specchiarci: chi eravamo e chi siamo? Se perdessimo emozioni e ricordi sarebbe una vita degna di essere vissuta? Che cosa resterà di noi a parte gli oggetti? Come ci stiamo preparando alla morte?
Un’occasione imperdibile per costringersi a pensare, attraverso un’esperienza che è a metà fra la performance e l’installazione artistica.
Nachlass. Pièce sans personnes
di Rimini Protokoll [Stefan Kaegi, Dominic Huber]
Piccolo Teatro Studio Melato, Milano
fino al 20 gennaio
(tre fasce orario – ingresso di 50 persone)