Grexit: neologismo degli ultimi mesi, parola che quotidianamente viene ripetuta all’unisono da mezzi di informazione, debitamente ammaestrati, al fine di evocare uno spettro che, come tutti i fantasmi, a forza di essere evocato, alla fine per molti sarà bello vedere dal vivo. Come spesso accade, i giornalisti in Italia, e non solo probabilmente, hanno il vizio di rivendicare la libertà di scrivere, ma si guardano bene dall’usare quella di pensare. E così quello che sta accadendo in questi giorni è una vergognosa campagna mediatica di disinformazione e capovolgimento della realtà dei fatti.
In primo luogo viene costantemente sbandierato che il referendum del 5 luglio sarà una decisione sullo stare o meno in Europa, ma si tratta di una menzogna. Il referendum proposto dal governo greco sarà sull’accettare la proposta della Troika o rilanciare un nuovo negoziato. Una volta assodato questo, è opportuno capire quale sia stata il piano proposto da Jean-Claude Juncker e i motivi del rifiuto greco.
Va infatti ricordato, come sottolinea bene Joseph Stiglitz in un suo intervento sul The Guardian, che già cinque anni fa la Troika aveva presentato un piano per la Grecia, che ha avuto come effetto il calo del 25% del PIL greco e un aumento della disoccupazione giovanile al 60%. Ma di questo la Troika non ha assolutamente assunto la responsabilità. Inoltre, le misure proposte sabato 27 giugno vanno nella stessa direzione: austerità. Nel briefing presentato dal coordinatore della delegazione del governo greco Euclid Tsakalatos, possiamo leggere quali sono le misure imposte dai creditori: 1) una manovra sull’IVA (23% ad alberghi e ristoranti) da varare entro il 2016 e pari al 1% del PIL; 2) una manovra, pari ancora al 1% del PIL, sul taglio delle pensioni, negando ogni possibilità di riforma delle medesime; 3) la non considerazione di alcuna misura amministrativa (tassazione dei grandi capitali, lotta all’evasione) nel consolidamento amministrativo; 4) decompressione della distribuzione dei salari nel pubblico, continuando a tagliare ai salari più poveri del settore.
Le istituzioni non hanno mai accettato che i greci, nello spirito della decisione dell’Eurogruppo del 20 febbraio, potessero proporre delle riforme basate su una logica diversa dalla loro. Per questo hanno insistito affinché fosse estesa la lista degli asset da privatizzare e fossero ulteriormente ridotti i salari reali (parallelamente a un aumento dei contributi sociali). Inoltre: non hanno mai accettato che il governo greco, in collaborazione con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, introducesse un sistema di contrattazione collettiva, come quello che esiste nella maggiore parte dei paesi europei.
E qui sta il punto. Il problema centrale della Grecia è il debito pubblico: 323 miliardi di euro, circa il 175% del PIL. Questo è il motivo per cui vengono richiesti i sacrifici sopra elencati. L’impossibilità di pagarlo emerge dal rapporto preliminare del Comitato per la Verità sul Debito Pubblico, costituito su decisione del presidente del parlamento greco. Cosa emerge da questo rapporto?
Dalla metà degli anni ’90 fino al 2009, la spesa pubblica in Grecia è in linea con la media europea (48%). Questo significa che i motivi per cui il debito greco si è impennato dagli anni ’80 vanno cercati altrove: i due terzi dell’aumento sono dovuti agli alti tassi pagati dai bond greci. Circa 40 miliardi sono imputabili al solo settore militare. Un altro dei problemi della Grecia è sempre stata l’elusione e l’evasione fiscale. Un fenomeno che tuttavia è legato agli “accordi fiscali” presi con il Lussemburgo da parte di alcune multinazionali, per pagare meno imposte se non nessuna in Grecia. Nell’inchiesta LuxLeaks emerge proprio la richiesta di Juncker – allora ministro delle finanze del Granducato – al governo greco di rinunciare alla contrattazione collettiva. In ultimo, l’aumento del debito ha seguito quello che si è verificato in tutto il mondo con lo scoppio per la crisi subprime.
Se questa è la situazione riguardo al debito, possiamo guardare ai piani di salvataggio degli ultimi anni. Sempre citando Stiglitz: «praticamente nulla dell’enorme quantità di denaro prestata alla Grecia vi è andata. È andata a pagare i creditori del settore privato, incluse le banche francesi e tedesche». Dal 2009 le banche tedesche hanno prestato circa 704 miliardi di dollari ai PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna). Le banche private prestavano alle controparti elleniche, alla ricerca di profitti più alti, permettendo alla Grecia di acquistare beni di consumo e armi tedesche. Una simile strategia non ha fatto altro che affidare il compito di ridurre gli squilibri e realizzare l’integrazione europea con la finanza privata. Il bilancio, scrive Andrea Baranes, è diventato evidente con la crisi subprime. In un mercato finanziario al collasso, Atene non è riuscita a rifinanziare il debito con le banche private, mentre queste ultime, per mancanza di liquidità, hanno chiuso i rubinetti.
È in questo momento che intervengono gli aiuti europei, che come ricorda bene sempre Stiglitz, vanno per il 77% al settore finanziario. Il debito è così travasato dal privato al pubblico. Di fatto, si è trattata una crisi bancaria come una crisi del debito sovrano. La logica è sempre quella: privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
In questa situazione ecco dunque che si spiega il paradosso per cui il debito greco è passato dal 129% al 177% tra il 2010 e il 2014, proprio in coincidenza con gli aiuti europei.
Ora, alla luce di quanto esposto, pare emergere con assoluta limpidezza la validità delle istanze che il governo greco porta al referendum. Con quale diritto si vuole imporre al popolo misure che vanno direttamente nella direzione di colpire i più deboli nel nome degli interessi comuni? Con quale coraggio si nasconde la responsabilità di un sistema finanziario privato che, in nome dell’economia virtuale, ha spezzato le reni all’economia reale?
Ma la questione non è solo economica, come dice Stiglitz: «why are European Union leaders resisting the referendum and refused even to extend by a few days the June 30 deadline for Greece’s next payment to the IMF? Isn’t Europe all about democracy?».
Ed è proprio una questione di democrazia che si sta giocando in questi giorni. Il popolo greco ha scelto a gennaio di abbandonare la linea dell’austerità, se Tsipras avesse semplicemente perseguito il suo mandato elettorale le trattative sarebbero già saltate. Indire il referendum è stato dunque un esempio di grande democrazia e onestà politica. La risposta dei leader europei non è stata all’altezza. Le continue ingerenze, tra cui rientra il pietoso commento del presidente del parlamento europeo Martin Schultz, e i numerosi tentativi di sabotaggio dei sondaggi che segnano drammaticamente queste ore, sono il segno di una profonda crisi delle istituzioni democratiche europee, oltre che il segno palpabile dell’arroganza di chi non accetta una visione politico-economica diversa dalla propria.
Andiamo verso la conclusione con le interessanti parole di Stiglitz:
«È difficile consigliare il popolo su come votare il 5 luglio. Nessuna alternativa – approvazione o rifiuto dei termini della Troika – sarebbe facile, ed entrambi portano alti rischi. Un voto positivo significherebbe ancora recessione senza fine. Un paese impoverito – che ha venduto tutti i suoi assets e i cui giovani migliori sono emigrati in massa – potrebbe ottenere forse il perdono del debito; forse la Grecia potrebbe essere in grado di ottenere assistenza dalla Banca Mondiale. Tutto ciò potrebbe accadere nei prossimi dieci anni, o forse vent’anni.
Al contrario, un voto contrario potrebbe al minimo aprire la possibilità che la Grecia, con la sua forte tradizioni democratica, prenda il proprio destino per mano. I greci avrebbero la possibilità di plasmare il proprio futuro, che, se non sarà florido come il passato, sarà ben più desiderabile delle spregiudicate torture del presente».
Ovviamente gli scenari abbozzati dall’economista non sono possibili se percorsi dal solo governo greco. Nel caso di vittoria del no, si dovrebbe avviare una grande conferenza europea sul tema dei debiti, un nuovo piano Marshall, come suggerisce Thomas Piketty, di tutti i paesi europei. Se non cambia passo l’Unione Europea affronterà una crisi di fiducia ancora più grave. Sarà l’inizio di una lenta agonia, nella quale sacrificheremo all’altare di una politica debitoria irrazionale il modello sociale europeo, persino in termini di democrazia e civilizzazione.
Forse adesso è più chiaro come sarebbe bene votare.
I know how I would vote.
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