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© Marco Caselli Nirmal

Prima di Hiroshima, la bomba scoppia a «Copenaghen»

10 minuti di lettura

Platea con il fiato sospeso per due ore e applausi finali di almeno dieci minuti per Copenaghen, regia di Mauro Avogadro al Piccolo Teatro di Milano. Il testo (1998) è del drammaturgo inglese Michael Frayn (famoso per la commedia Rumori fuori scena e autore del romanzo ormai classico Sweet Dreams, finalmente tradotto anche in Italia); gli attori sono interpreti di grande talento, che lo ripropongono dopo quasi vent’anni dall’esordio.

Si tratta di una parabola filosofica, poetica e politica a un tempo, uno spietato scavo psicologico per sviscerare i limiti fra scienza ed etica. Si discute di atomi, isotopi, reattori, massa critica, ma quel linguaggio tecnico si carica di significati universali: le reazioni a catena sono il fuoco di fila delle argomentazioni, le rotte di collisione degli elettroni descrivono anche la realtà dei rapporti umani, e ogni verità è condizionata dal punto di osservazione relativo.

© Marco Caselli Nirmal

I protagonisti e la scena

Chi sono i protagonisti? Due giganti della fisica, il tedesco Werner Heisenberg (Nobel 1932) e il suo maestro, il danese Niels Bohr (Nobel 1922), accompagnato dalla fedele moglie Margrethe. Lo scienziato maturo è interpretato da un grande Umberto Orsini, pacato, elegante e sicuro, padre-patriarca in apparenza senza macchia. Di fronte a lui, uno splendido Massimo Popolizio, convincente nel suo ruolo di “figlio-discepolo”, pervaso da timore reverenziale, ma anche da arroganza e narcisismo giovanile. Figura mediana, dentro e fuori il “ring” dello scontro, è una poliedrica Giuliana Lojodice, narratrice, spettatrice e giudice.

La scena (Giacomo Andrico) è occupata da una struttura che ricorda l’abbraccio di un’aula universitaria a gradoni discendenti. L’anfiteatro non si chiude su una cattedra, ma su una pedana in pendenza, che obbliga a un equilibrio precario e si spalanca sulla platea, a indicare che il centro di gravità siamo noi, o meglio l’Uomo. Sullo sfondo, le lavagne traboccano di cifre e formule, arabeschi magici e affascinanti che traducono l’essenza dell’universo. Il colpo di genio dell’autore è situare i personaggi nell’astrazione del non-spazio e non-tempo: sono ormai morti. E come può essere l’aldilà di due scienziati? Una dimensione fluida in cui la ricerca dei perché continua inesausta. L’indagine questa volta sarà orientata a scoprire le ragioni dell’agire umano, che procede secondo vie misteriose e affascinanti quanto la fisica. C’è infatti ancora una domanda che attende risposta, e le questioni irrisolte sono sempre una sfida.

L’estasi della scoperta scientifica

Molto riuscita è la ricostruzione del triennio felix, 1924-27 a Copenaghen, dove Bohr attirava giovani talenti (si veda anche Gabriella Greison Hotel Copenaghen, diventato anche spettacolo teatrale). Gli sprazzi della memoria riportano quei momenti entusiasmanti: la dedizione totale alla scienza, che è febbre divorante, competizione, confronto, litigi fino all’alba, euforia della scoperta. In quelle esplorazioni pionieristiche dell’atomo, maestro e discepolo condividono il sogno di un nuovo Illuminismo, sono pronti a scardinare le teorie classiche e arrivano a definire i principi di Indeterminazione di Complementarietà, essenziali per i successivi sviluppi della scienza.

Avvicinarsi alla verità per approssimazione

Poi scoppia la seconda guerra mondiale e la Danimarca viene occupata dai nazisti. Nell’autunno del 1941 Heisenberg, affermato professore in Germania all’apice della carriera, chiede un colloquio a Bohr. Che cosa accadde? Che cosa si dissero nella loro passeggiata solitaria? Le loro dichiarazioni successive sono contraddittorie. L’unico fatto certo è che quel momento segna la fine di una collaborazione e di un’amicizia, ma forse avrebbe potuto anche condizionare le sorti della grande Storia. Attorno a questo mistero si sviluppa il dramma di Frayn: nell’orizzonte del dopo i protagonisti si interrogano. La loro indagine si rivela assai complessa e non approderà a una formula definitiva: sarà piuttosto un procedere per tentativi, fatto di ritorni, ricapitolazioni, ipotesi e smentite. La verità sembrerà ancora più lontana. D’altra parte, dopo Einstein non esiste più un universo oggettivo perfettamente determinato, si può procedere solo per approssimazione. Mentre tentano di spiegare, l’evocazione si fa presente che travolge, in un prismatico gioco di allora/ora, vicino/lontano. E lo spettatore è preso in trappola: quando pensi di aver capito, ecco che subentrano nuove evidenze, e allora cambi idea e posizione. Tutto è fluido: «prima che riusciamo ad afferrare qualcosa, essa è già sparita», dice uno dei protagonisti.

© Marco Caselli Nirmal

Le ipotesi

Che cosa voleva Heisenberg? Voleva proporre al maestro una collaborazione o carpire informazioni sulla ricerca nucleare degli Alleati, per poi dedicarsi in patria con maggiore lena alle proprie ricerche, foraggiato dai nazisti? Occorre andare più in profondità. Il discepolo infatti pone a Bohr un interrogativo morale: quando e fino a che punto è lecito lasciare i puri reami della fisica teorica per “sporcarsi” con la politica? Sta cercando l’assoluzione-benedizione del maestro per proseguire le ricerche in nome del Progresso della scienza? E se invece il discepolo narciso è venuto solo a pavoneggiarsi per i suoi successi davanti al maestro? Così gli rinfaccia tagliente Margrethe, con i piedi per terra e armata di buonsenso: evoca l’immagine inquietante di un Prometeo che, mentre soffia il vento della distruzione e della violenza, rinchiuso nelle viscere della terra, si ingegna a ricavare dall’atomo lo spirito della materia. Lo scienziato dunque che cerca la fissione nucleare si maschera da Prometeo (benefattore dell’umanità), o forse è un Faust, disposto a ogni compromesso per la sete inesauribile di conoscenza? Quanto è forte la tentazione di spingersi oltre, e quanto male può fare al mondo l’eccesso di “curiosità” scientifica, quando è asservito alla politica?

Heisenberg illustra il suo rovello morale in un modo molto efficace: una discesa innevata e l’ebbrezza della velocità sugli sci; all’improvviso davanti a te si staglia l’orlo del nulla. Che cosa fai? Rallenti, sterzi a destra, a sinistra o ti schianti? Devi decidere, e hai solo una frazione di secondo.

Non è un problema di fisica, ma chiaramente un’immagine paradigmatica. I nazisti bussano alla porta della fisica e chiedono la bomba. Ecco che si profila l’orizzonte del nulla: che cosa fai? Rinunci alla discesa, cerchi di modificare la traiettoria controllando la velocità, o procedi?

Alla luce di questo dilemma le posizioni sfumano, le ombre si infittiscono, le tragedie personali si intrecciano alle tragedie della Storia. Chi dei due ha sperimentato di più gli orrori della guerra? Il danese ha vissuto l’occupazione e i rastrellamenti degli ebrei, ma poi nel 1943 è riparato negli Usa, e ha partecipato al progetto “Manhattan” a Los Alamos; il tedesco, spiato dalla Gestapo, ha visto le macerie della sua «beneamata e disonorata patria». E proprio lui, che crede ciecamente nella matematica, forse ha consapevolmente omesso di fare il calcolo essenziale, per non dare la bomba ai nazisti? Ecco una piega tragica imprevista e spiazzante.

Il balletto delle ipotesi si ferma, mentre il grande fungo atomico invade la scena in un boato. Il mistero del 1941 non si scioglie, perché c’è sempre un «nucleo finale di indeterminazione nel cuore delle cose». Se la verità è invisibile, l’unico dato certo è l’esplosione della super-bomba e la morte di migliaia di persone. La via per Hiroshima passa per Copenaghen, luogo simbolico per gli uomini di scienza che si interrogano anche sulla loro umanità.

 

Copenaghen
di Michael Frayn
regia di Mauro Avogadro
con Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice
produzione Compagnia Umberto Orsini e Teatro di Roma – Teatro Nazionale
fino al 22 aprile 2018, Piccolo Teatro Grassi, Milano

 

Gilda Tentorio

Grecia e teatro riempiono la mia vita e i miei studi.
Sono spazi fisici e dell'anima dove amo sempre tornare.

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