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Quando abbiamo smesso di capire il mondo?

Ce lo racconta Benjamín Labatut nel suo ultimo romanzo

14 minuti di lettura

Cos’hanno in comune Alexander Grothendieck, Fritz Haber, Shinichi Mochizuki, Karl Schwarzschild, Erwin Schrödinger, Werner Karl Heisenberg? Hanno tutti cercato di capire il mondo. E sono perciò tutti protagonisti alla pari nel nuovo libro-saggio di Benjamín Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, edito da Adelphi (trad. Lisa Topi, 2021).

Benjamín Labatut è uno scrittore di origini olandesi, ormai trapiantato in Cile, e questo è il suo terzo romanzo. Il libro di Labatut ci consegna 180 pagine, dove a ogni capitolo ci viene narrata la vicenda di una scoperta scientifica o matematica attraverso la narrazione della vita del fisico, dello scienziato o del matematico che ebbe una sorta di “rivelazione” (ci torneremo dopo).

Labatut, dunque, in Quando abbiamo smesso di capire il mondo mette insieme racconti e curiosità su ognuno di questi geni: da chi ha inventato il cianuro a chi ha risolto le equazioni della relatività generale, dando così vita a un saggio ricco di aneddotica, ma anche consegnandoci un filo d’Arianna che collega le vite di questi personaggi-geni, una costante che ne definisce in qualche modo la pazzia.

Il periodo storico preso in esame è ampio, ma parte intorno ai primi anni del secolo scorso, ovvero quando il mondo stava perdendo la propria aurea spirituale e si scontrava con la materialità delle scoperte scientifiche.

Il primo capitolo di Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Labatut, con un taglio storico e concentrato, ci narra in prima battuta la fine di Hermann Göring (famoso generale nazista condannato a morte per i suoi delitti in guerra), e questa prima vicenda – seppur apparentemente slegata da tutto il resto – viene collegata alla scoperta del blu di Prussia (lo stesso blu utilizzato dall’opera di Yves Klein che è riportata nella copertina).

Quando abbiamo smesso capire mondo Labatut
La copertina del libro. Da: adelphi.it

La scoperta di questa sostanza passa attraverso un’altra sostanza, lo Zyklon, fertilizzante potentissimo e al tempo stesso uno dei veleni più tossici che esistano, il cianuro. Lo Zyklon fu sistematicamente utilizzato sotto forma di gas per sterminare le truppe in guerra dal genio Fritz Haber a partire dal 1915, che lo aveva scoperto (attraverso il processo dell’estrazione dell’azoto dall’aria) solo pochi anni prima. Grazie a Haber si evitò la carestia di inizio XX secolo, ma allo stesso tempo si falcidiarono migliaia di vittime tra le trincee e i campi di concentramento durante la Prima Guerra Mondiale.

Già in partenza dunque ci viene trasmesso uno dei temi principali – che sarà ripreso in tutto il libro –,  ovvero quello della prospettiva: la scienza, da questo punto di vista, è in grado di toccare vette altissime, così come di creare i baratri più profondi.

Nel capitolo successivo di Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Karl Schwarzschild (astronomo, fisico, matematico e ufficiale dell’esercito tedesco) consegna a Einstein la prima soluzione esatta delle equazioni della relatività generale, e lo fa asserendo che il nostro sistema planetario è destinato a lungo andare all’instabilità, perché nulla può impedire ai pianeti di uscire dalle proprie orbite. Anticipando dunque Einstein, Schwarzschild aveva scartato la teoria tridimensionale dell’universo, dicendo invece che la sua geometria potesse piegarsi e deformarsi; questo perché si basava sull’aspetto della singolarità dei corpi e affermava che lo spazio potesse fluire allo stesso modo del tempo (e viceversa). Lo stesso Schwarzschild, scopritore dei buchi neri, che si interroga con queste parole: «Se la materia poteva assumere questo stato mostruoso esisteva un corrispettivo nella mente umana?»

Abbiamo poi la storia del matematico giapponese Shinichi Mochizuki, che pubblica sul suo blog quattro articoli contenenti la dimostrazione di una delle congetture più importanti della teoria dei numeri, ovvero a+b=c. Cinquecento pagine ricche di intuizioni per l’elaborazione di una teoria che nessuno riesce a comprendere, perché ogni nuovo schema presuppone l’abbandono di quanto scoperto precedentemente. Mochizuki subisce l’influenza di Alexander Grothendieck, che non è interessato alla risoluzione dei dilemmi, quanto alla generalizzazione: è ossessionato dallo spazio e dalla relazione dei vari elementi che lo abitavano. Eppure «per venticinque anni, dodici ore al giorno, sette giorni su sette, Grothendieck dedicò tutte le sue energie alla matematica» perché per lui «fare matematica è come fare l’amore».

Poi abbiamo Erwin Schrödinger, che paragona le particelle elementari alle onde e con un’unica equazione riesce a racchiudere quasi tutta la chimica e la fisica moderna, a cui si oppone la teoria di Heisenberg con le sue idee astratte e a tratti filosofiche – nonché estremamente complesse. Heisenberg sapeva che tutti si sbagliavano, che gli elettroni non erano né onde né particelle, ma non sapeva come spiegarlo, perché aveva avuto una rivelazione.

Labatut ha affermato di essere personalmente affascinato e ossessionato dall’idea di epifania: lui stesso quando ha iniziato a scrivere il libro non sapeva cosa ne sarebbe uscito, non ha seguito nessun percorso prestabilito. Per l’autore l’epifania è strettamente connessa con la permeabilità, il lasciarsi attraversare dall’ispirazione, da qualcosa di più grande di noi; e allo stesso modo è connessa alla singolarità dell’individuo. Ma soprattutto alla sua prospettiva, alla sua visione.

Allora il confine tra letteratura e scienza diventa sottilissimo, perché «il fisico – come il poeta – non deve descrivere i fatti del mondo, ma creare metafore e connessioni mentali».

Quando abbiamo smesso capire mondo Labatut
Benjamín Labatut. Da: esquire.com

Così anche il giovane Heisenberg durante il suo soggiorno a Helgoland rivoluziona il mondo scientifico con le sue scoperte sulla meccanica quantistica e lo fa accorgendosi che bisogna smettere di capire il mondo così com’è e adottare nuove prospettive. Il fisico lavorava giorni e giorni alle sue matrici in uno stato di trance, trascurando persino di mangiare e dormire.

La rivelazione per Heinsemberg arriva in un primo momento nel delirio della malattia, ma anche quando in un losco bar di Copenaghen gli viene chiesto: «E a chi dobbiamo questo meraviglioso inferno, se non a voi? Mi dica quando ha avuto inizio tutta questa follia, professore. Quand’è che abbiamo smesso di capire il mondo?», riportandoci – del tutto spiazzati – esattamente al fulcro del libro

L’epilogo de Quando abbiamo smesso di capire il mondo, segnato dal capitolo Il giardiniere notturno, ci consegna forse la chiave di volta per comprendere meglio il libro di Labatut. Ci sono strani funghi che divorano le piante, animali che muoiono misteriosamente, una sorta di apatica fiducia nel mondo scientifico… però in qualche modo la vita non smette di rifiorire. E questo ci riporta al titolo originale dell’opera, edita da Anagrama: Un verdor terrible, ovvero “Una vegetazione terribile”.

Sulla sua personale definizione della scienza, Labatut ha spiegato alla Lettura: «La scienza non offre verità ma un metodo, pieno di incertezze: una domanda scottante mai del tutto risolta. La vera scienza sospetta sempre che dietro ogni sua scoperta giaccia qualcosa di più profondo, oscuro, strano. La sua più grande virtù è l’infatuazione per il mistero, un desiderio di sapere perseguito con lo stesso fervore con cui i santi desideravano il contatto con il Verbo. […] Mi interessa l’oscuro ventre della scienza, i difetti nella logica dell’universo, le scoperte clic rompono la nostra immagine della realtà o l’espandono fino all’inimmaginabile, perché anche la scienza, se vista da una certa prospettiva, è una forma particolare di follia: la follia di pensare che possiamo capire il mondo».

Lababtut prova quindi a rendere la scienza letteratura e l’esperimento è sicuramente riuscito: i suoi personaggi sono letterari e umani, pieni di ossessioni, paure, idiosincrasie.

Ci sono veleni assassini, colori assassini, morti, guerre, ma anche amori, fiducia indefessa per la scienza che viene praticata allo sfinimento… e tutto si mescola in quest’opera di Labatut in maniera distinta ma al tempo stesso coesa, in una prosa che cattura e coinvolge, quasi ipnotica. Si potrebbe definire un’opera per gli addetti ai lavori ma anche per i non addetti ai lavori: si sfoglia come se si sfogliasse un giallo, con la stessa smania di arrivare alla fine. La complessità che deriva dalle interdipendenze e dalle connessioni tra le scoperte e gli aneddoti che descrivono le persone, proprio come le reazioni chimiche, creano una ragnatela tanto aggrovigliata quanto semplice da leggere per chi sa coglierne i particolari… in un modo che potremmo definire quasi sebaldiano.

Gli scienziati, i fisici e i matematici descritti da Labatut sono ebbri, resi folli dalle loro stesse scoperte, totalmente immersi e annullati dalle proprie spirali di pensiero. Spesso non comprendono come sono arrivati a fare le loro scoperte, e non riescono a determinarne le conseguenze.

La rappresentazione di questi geni attraverso il racconto delle loro ossessioni e delle loro malattie ne eleva probabilmente la grandezza delle loro menti, assoggettate alla precarietà dei corpi. Così ad esempio Schwartzschild, giunto all’apice della scoperta che rivoluzionò il mondo scientifico di quegli anni, ci viene raccontato attraverso la malattia autoimmune che affliggeva il suo corpo, provocandogli lesioni alle gengive, all’esofago… infine in tutto il corpo, fino a causarne la morte.

Tuttavia nella stupefacenza del dettaglio sta probabilmente la grandiosità di quest’opera: attraverso la mitologia scaturita dall’uomo-scienziato, attraverso l’epifania che gli consente di arrivare alle proprie scoperte. Così Labatut si serve della fiction, delle storie, per svelare la complessità umana che altri hanno provato a sbrogliare, in un’opera che non è né saggio né fiction (l’autore stesso afferma che quasi tutte le storie appartengono alla fiction, seppur basate su fonti reali). Ma questo proprio perché anche la scienza, come la letteratura, ha lo scopo di raccontare storie, distruggere il pregresso, ricostruire nuove prospettive. Così gli scrittori sono «ostinati, e persistono» (come afferma l’autore stesso ridendo in un’intervista con Claudia Durastanti).

La scienza, afferma Labatut, non è mai il riflesso del mondo, ma delle nostre menti; e quindi «solo una visione di insieme, come quella di un santo, di un pazzo o di un mistico, ci permette di decifrare la forma in cui è organizzato l’universo».

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Ester Franzin

Lettrice incallita, amante della letteratura e della lingua italiana in tutte le sue declinazioni. Classe 1989, è nata in un paesino della Pianura Padana. Si è laureata in Storia dell’Arte a Venezia e poi si è trasferita a Rimini, nel cuore della Romagna. Ha frequentato la scuola Holden di Torino e pubblicato il suo primo romanzo «Il bagno di mezzanotte».

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