Regina José Galindo, tra le più grandi protagoniste dell’arte contemporanea internazionale, Leone d’Oro alla 51esima Biennale di Venezia come migliore giovane artista, ha scelto l’Orto Botanico di Palermo come luogo ideale per la sua performance dal titolo Raìces e i Cantieri Culturali della Zisa per la sua personale Estoy Viva, a cura di Diego Sileo e Eugenio Viola. La performance, curata da Giulia Ingarao, Paola Nicita e Diego Sileo, ha avuto luogo il 23 aprile. La mostra, invece, è stata inaugurata il 24 aprile, presso il Padiglione ZAC dei Cantieri Culturali della Zisa, e sarà visitabile fino al 28 giugno. Si tratta del riallestimento di una mostra realizzata al PAC di Milano, arricchita da lavori mai presentati prima in Italia. Ciò rende l’esposizione palermitana la più ampia mostra antologica dell’artista finora realizzata. Il doppio evento è stato promosso dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Palermo, da Arcigay Palermo e Palermo Pride, da Amnesty International, in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano e con il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea.
Non è un caso che Regina José Galindo abbia scelto Palermo come location per la sua Raìces. La famosa performer chiama gli spettatori ad instaurare un nuovo rapporto, più profondo e sensuale, con la Natura. Ma non è tutto. Raìces, appositamente pensata per l’Orto Botanico – luogo suggestivo dominato da un maestoso ficus magnoloide – è soprattutto una riflessione sulle radici, intese in senso sia fisico che metaforico.
La performance, culminante in un abbraccio convulso e altamente simbolico tra corpi, foglie e radici, vede impegnata l’artista in prima persona. Nuda, ReginaJosé Galindo rimane immobile per ore ai piedi di un ficus, con le braccia piantate a terra. Le braccia come radici umane pronte a compiere il miracolo di una rinnovata fusione panica con la natura. Regina José Galindo, officiante di questo rito, ancestrale ma attualissimo, chiama gli altri performer, tutti volontari reclutati a Palermo in rappresentanza delle tante etnie che popolano la città, a scavare nella terra per raggiungere le radici delle piante dei rispettivi paesi di appartenenza. Come scrive Giulia Ingarao: «La performance sviluppa il tema dello sradicamento e traduce in immagine corale l’aspirazione a riappropriarsi delle proprie radici culturali, afferrandole saldamente in un abbraccio originario con la terra». La performance gioca infatti sul parallelismo tra le piante, provenienti da tutto il mondo, sradicate e trasportate – dal 700’ a oggi – all’Orto Botanico, e le tante comunità straniere che, radicate a Palermo, rendono la città un vero e proprio crocevia di popoli, storie e tradizioni.
Raìces è un’opera che giunge puntuale all’appuntamento con la Storia. L’azione è stata infatti messa in scena nel giorno del summit internazionale sull’immigrazione, convocato all’indomani delle stragi avvenute nel Canale di Sicilia e vicino alle coste di Rodi. Il mare nostrum assume sempre di più le sembianze di un gigantesco gorgo che risucchia storie, vite e speranze. Regina José Galindo avverte tutto questo e rielabora il suo e il nostro lutto con i mezzi dell’artista: etici, estetici e poetici.
Affine a queste tematiche, la mostra Estoy Viva è divisa in cinque sezioni: Politica, Donna, Violenza, Organico e Morte e comprende oltre 60 lavori, tra foto, video di performance e alcuni oggetti impiegati nelle stesse.
Nella sezione Organico l’artista guatemalteca ripropone il tema del rapporto con la natura, già al centro della performance all’Orto Botanico. Nel caso di Regina però non si tratta di semplice vocazione ecologista, infatti raccoglie l’eredità della performer cubana Ana Mendieta spingendosi oltre. Nella poetica della Galindo la Madre Terra è rifugio sicuro, liberazione, spazio in cui poter sprigionare pulsioni di autodistruzione e tensioni nichiliste. La natura è anche tempio nel quale celebrare il rito cosmico del ciclo vita-morte-rinascita.
La morte stessa è protagonista assoluta di un’intera sezione della mostra. Dal nichilismo sfrenato di No perdemos nada con nacer (2000) – nel quale l’artista, chiusa in un sacco di plastica, viene gettata come un rifiuto in una discarica – all’idea di morte come occasione di condivisione e affraternamento tra gli uomini (Negociaciòn en turno, 2013), per giungere a un’opera come Suelo comun (2013), dove il tema della morte si intreccia a quelli del Tempo e della Storia. In quest’ultima opera l’artista rimane sotto terra, in una fossa, protetta da una lastra di vetro trasparente su cui il pubblico può camminare e attraverso il quale ha la possibilità di osservarla. La performance, eseguita a Ljubliana, vuole evocare le centinaia di fosse comuni presenti in molti territori del mondo, dal Guatemala alla Slovenia.
Nelle sezioni Donna e Politica, forse le più interessanti e incisive dell’intera esposizione, il corpo della donna, come in un rito alchemico, sembra quasi assorbire, filtrare e sublimare il male che serpeggia nel mondo. Il corpo che, da luogo d’azione, diventa esso stesso esperienza; esperienza da comunicare e in cui coinvolgere gli altri. Dunque atto politico.
In questo senso quella della Galindo è un’arte eminentemente etica. Basti pensare al modo in cui tratta la violenza. Se in Hermann Nitsch e negli altri Azionisti Viennesi, ad esempio, la riflessione sulla violenza è pervasa da suggestioni filosofiche e misticheggianti, nel lavoro della Galindo il tema della violenza finisce sempre per intrecciarsi a motivi politico-sociologici quali il ruolo della donna, il genocidio, i pericoli del nazionalismo e la guerra.
L’uomo e i suoi errori (o per meglio dire, i suoi orrori), le perversioni del Potere, la donna e il suo corpo, la Natura: ecco i temi scandagliati dall’artista, pronta a regalare al visitatore una carrellata di immagini altamente eloquenti, in un raro connubio di shock ed efficacia visiva, se non di vera e propria bellezza. Una bellezza che scaturisce dal dubbio e dallo sgomento. Quello stesso sgomento che si impossessa dello spettatore quando questi si accosta alle opere della sezione Violenza. Qui il corpo dell’artista diventa una sinopia della presenza costante della violenza nel mondo, in una liturgia catartica che ripropone, in forma simulata, l’atto efferato e lo scompone in simboli, nel tentativo di indagarne l’essenza.
Regina José Galindo ci insegna, inoltre, che non le immagini solamente possono veicolare violenza; essa può insinuarsi anche nei suoni e negli scoppi, come quelli prodotti da un gruppo di individui che colpisce freneticamente una cupola sotto la quale si trova l’artista stessa (nella performance Coparazòn, 2010), o ancora, la violenza può assumere un suo peso specifico, simile a quello di un litro di sangue che cade, goccia dopo goccia, sul capo della performer in El peso de la sangre (2004).
Regina José Galindo rinnova e arricchisce la tradizione della performance al femminile (basti pensare a Gina Pane, Ana Mendieta, Ketty La Rocca e tante altre), sondando ogni possibilità espressiva offerta dal corpo.
Scrive Paola Nicita:
«Il corpo performativo rappresenta sé, senza filtri… e la performance produce un anti-oggetto, dà luogo ad inquietudini, sensibilità, umori, ricordi, attinge al vasto repertorio emotivo di cui ciascuno è custode, e che il corpo oltre il corpo custodisce come uno scrigno, rielabora, riconduce a sé».
È contro il corpo di Regina José Galinda che va ad infrangersi miseramente l’ideale romantico del principe azzurro e la visione sacrale delle nozze stesse (in Esperando al prìncipe azul, 2001). È con il corpo, deformato dalla gravidanza, che l’artista in Mientras, ellos siguen libres (2007), denuncia l’atrocità delle violenze sessuali perpetrate sistematicamente dall’esercito guatemalteco ai danni di donne indigene incinte, durante la lunghissima guerra civile durata dal 1960 al 1996. È sul suo corpo, legato a un letto, che vengono proiettate notizie di stupri avvenuti nel suo paese (El dolor en un panuelo, 1999), ed è ancora sul suo corpo che ella incide, con un coltello, la parola perra (cagna), (in Perra, 2005), per denunciare gli atroci crimini commessi contro le donne durante la guerra in Guatemala: sono stati infatti rinvenuti numerosi corpi torturati sui quali erano state incise delle scritte.
Così, con le umiliazioni che infligge a sé stessa, Regina José Galindo sembra voler espiare la colpa del genocidio degli Indios.
La forza delle scene e dei gesti che costellano le sue performance, riescono in una vera impresa: quella di risvegliare la coscienza, sempre più assopita, dello spettatore occidentale e guarirlo, anche solo per qualche istante, dalla peggiore malattia di cui è affetto: l’indifferenza. Regina José Galindo rinnova la componente catartica insita nell’atto performativo e, come in un rito di purificazione, dopo aver attraversato i territori della pena e del dolore, raggiunge la luce e risorge, quasi eroicamente, consegnando allo spettatore un ultimo, estremo messaggio di speranza: Estoy Viva, «rimango viva», proprio come il suo popolo, nonostante tutto.
La mostra sarà visitabile presso il Padiglione ZAC dei Cantieri Culturali della Zisa fino al 28 Giugno 2015, dal Martedì alla Domenica dalle 9:30 alle 18:30.
Per informazioni: cultura@comune.palermo.it