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René Magritte, Les amants, 1928

Riflessioni sul senso e la concretezza della morte

Qual è il senso della morte? È una domanda che ci poniamo da sempre e a cui la filosofia ha cercato di dare una risposta.

5 minuti di lettura

La morte si presenta a noi, in primo luogo, come una questione personale, un vis-a-vis di cui siamo soggetto ed oggetto nel medesimo tempo; davanti ad essa tacciono il desiderio di successo, le nostre ansie sociali e, inesorabilmente, si fa forte la domanda circa il senso.

Non un senso che denoti qualcosa, che appaghi le voglie della ragione, bensì un senso in cui ci sentiamo compresi a nostra volta qualcosa, cioè, che ci conduca a “sentirci giustificati d’esistere”. E se questo qualcosa per Jean-Paul Sartre è la gioia dell’amore, rimane comunque per tutti una questione la cui urgenza è palpabile fin dal momento in cui, terminata la fanciullezza, comprendiamo di stare abitando le carni in cui moriremo.

Il mito di Sisifo

Per Camus l’insensatezza, l’irragionevolezza del mondo erano insufficienti per ammettere la possibilità del suicidio in quanto risposta a tale assurdità. Ma non possiamo neppure dirci soddisfatti dell’opportunità di essere l’ennesimo Sisifo; ciò ferisce il nostro bisogno di una verità giusta. Una tale verità non deve condannarci all’assurdo, ma lo deve riempire di senso. E noi vogliamo una tale verità.

«La volontà, intendo la volontà di non morire mai, il non rassegnarsi alla morte, costruisce necessariamente la dimora della vita, e la ragione necessariamente la flagella con bufere di pioggia e di vento»[1]

Il cuore, nella sua volontà di non morire mai, è continuamente umiliato dalla bufera infernale della ragione, la quale mostra un universo senza anima, ridotto alla materia, senza libertà, costretto al determinismo.

Essere materia

Se questo è quanto dato nell’universo, lo stesso siamo anche noi; anche a questo io tocca in sorte l’essere-materia-determinata, e cioè essere in ultimo l’errore di una materia eccessivamente complessa che si illude di aver qualcosa che la distingua da se stessa, e chiama questo qualcosa coscienza. Ma se la coscienza dipende dalla materia, se anch’essa è soggiogata all’”ordine del tempo”, allora anche per essa è già pronto il calice del Nulla.

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Diviene però fondamentale ridare autorevolezza al grido di vita, di libertà che, adagiandosi nelle pieghe del cosmo, lo vivifichi, non perché sia vivo, ma perché è lo spirito, la cui esistenza è palese mediante la volontà, a volere che sia così. E neppure Dio può obiettare, in quanto Egli non è che il figlio della volontà più perfetta: non già la somma di infiniti predicati, di infinite determinazione teoretiche, un convoluto episillogismo senza né inizio né fine; bensì la volontà più pura, la volontà che tramite se stessa rende vero il suo oggetto. Dio è l’uomo dimentico di non poter creare.

La follia

Ma la filosofia ha spesso relegato tale ambizione nello spettro della follia, e così facendo, il problema è stato posto nelle mani di una ragione priva di sentimento, che si è impossessata di ogni frammento di reale.

«Strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capacela filosofia. Tutto quanto è mortale vive in questa paura della morte […]. Ma la filosofia nega questa paura della terra. […] Perché l’uomo non vuole affatto sottrarsi a chissà quali catene, vuol rimanere, vuole vivere»[2].

Molte volte si prova a ricordare, davanti alle nostre tombe, come Kant conclude l’immortalità dell’anima, ma ancora si sa marcire chi sta dietro a quelle lapidi; e ciò non può che tormentarci.

Francesco Diego Putarani

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[1] M. Unamuno, Del sentimento tragico della vita, SE, Milano 2003, p. 105
[2] F. Rosenzweig, La stella della redenzione, trad. it. G. Bonola, Vita e Pensiero, Milano 2005, pg. 4-5

Redazione

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