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Il senso del tragico. Politica della tragedia e del dramma

La nostra società spinge alla ricerca del colpevole su cui far ricadere le angosce che affliggono il nostro animo. Ad oggi, che cosa abbiamo custodito del senso del tragico?

23 minuti di lettura

In un crescendo di moralizzazione di ritorno, la nostra esistenza culturale va conformandosi sempre di più ad un’euristica del colpevole, a sua volta sintomo di un’ossessione della colpa. Dissezionare sistematicamente le giunture delle nostre interazioni, aprirne l’intreccio, individuarne un senso quasi giallistico, tutto rivolto ad un giudizio finale. Adattiamo la nostra prassi civile a parametri al limite del maoistico, apponendo alternativamente lettere scarlatte e passepartout morali. È facile pensare che si tratti dell’ennesimo paragrafo dell’ormai biblica sintomatologia dell’internet della cui stesura ognuno partecipa, ora al bar, ora dalle colonne di un giornale. È davvero internet a renderci tanti piccoli Minosse, ben più livorosi dell’originale dantesco? Una società del giudizio è una faccenda ergonomica?

Di certo non è la sede per fare della genealogia dei massimi sistemi. Un’urgenza congiunturale può essere però l’occasione per evocare problematiche universali. Tempo e significato si intrecciano, nel costante sottrarsi del secondo al primo. Estrarre, dunque, un afflato universale, tecnicamente utile, dalla Babele della storia: l’inverso dell’operazione demiurgica.

L’aiuto può venire da Max Scheler, filosofo monachese, esponente di spicco della fenomenologia tedesca.Il suo Il fenomeno del tragico (uno scritto minore, quasi sconosciuto) sposta una riflessione vocazionalmente estetica o sociologica in un ambito del tutto inedito.

Scheler va alla ricerca di quello che definisce «un elemento essenziale dell’universo stesso»: un fenomeno la cui legalità specifica garantisce una vera e propria autonomia ontologica. Scheler si serve, dunque, di una casistica esemplare e letteraria, e tuttavia ha come interesse specifico quello di restituire al tragico l’autonomia che postula all’inizio del testo: l’autonomia di un significato precedente ad ogni sua manifestazione. L’argomentazione scheleriana si apre con una genetica del tragico: esso trova la propria origine nella dinamica dei valori, nella conflittualità intrinseca alla loro compresenza.
Il tragico non nasce dal trionfo mortifero di un disvalore su un valore, perché suo immancabile presupposto è la conflittualità fratricida dei valori, la dinamica per cui, alla prova del tempo, «portatori di valori ugualmente elevati appaiono come “condannati” a distruggersi e a sopprimersi vicendevolmente».

In verità, solo dal chiuso di un moralismo intellettualistico è possibile immaginare i valori come «disarmati». Ora, se questo è il presupposto dinamico del fenomeno del tragico, esso trova, nella riflessione di Scheler, un secondo contenuto distintivo nella propria eziologia. Qui svetta, chiarissima, la distinzione tra dramma e tragedia: l’evento che emerge nel tragico deve essere solo la manifestazione necessaria, inevitabile, di una proprietà costitutiva del mondo.

Il dramma è lo sviluppo di una contraddizione prassiologicamente interessante, è sempre manifestazione di una contraddizione contingente, evitabile. Non c’è rapporto di consustanzialità tra dramma e storia, e uno sviluppo drammatico è in qualche modo sempre discontinuo, esteriore a sé stesso. Di contro, vi è tragedia laddove il dramma è sostanziale. Come spesso accade nelle riflessioni filosofiche più profonde, il testo scheleriano identifica la differenza tra dramma e tragedia – questione che parrebbe quantomai particolare! – come una questione ontologica, o meglio come ennesima declinazione dell’unica, grande questione ontologica: la dialettica tra necessario e contingente, una sorta di vagito perenne della filosofia. Nella questione particolare de Il fenomeno del tragico, il lettore vede dunque compenetrarsi da una parte il contenuto dell’eguale legittimità di valori, la nebbia velenosa dell’indecidibilità, e dall’altra la forma ferrea della necessità, di una necessità che è ben diversa dal senso in cui la intende il meccanicismo: una necessità essenziale, pre-evenemenziale. Una necessità narrativamente inaggirabile, nel senso che lo stesso autore tragico è chiamato a restituire l’inestinguibilità del conflitto.

Da acuto osservatore, Scheler isola dall’area semantica apparentemente magmatica della «disgrazia», un’inattesa polarità quella tra dramma e tragedia. Una polarità quantomai utile, giacché si staglia oltre la contingenza storica, consegnando al lettore un’opposizione di paradigmi universali e un campo di applicazione virtualmente infinito. Così già nel testo, dove Scheler spazia da Shakespeare ad Eschilo. Quest’ultimo, in particolare, è utile per portare alla luce, per contrasto, la nostra visione della colpa. Infatti, la conseguenza di un senso tragico della realtà è proprio la disattivazione, o quantomeno l’inibizione, dei meccanismi propri della colpa e dell’attribuzione di colpa, nel contesto non tanto di una sua assenza quanto di una sua insituabilità tendenziale. Non si tratta, quindi, di un ingenuo manicheismo, per cui il tragico sarebbe cieco alla colpa: è piuttosto offerta la possibilità di individuare slittamenti «quantitativi» entro la polarità «qualitativa» dramma-tragedia.

Come si dispone un’opera, o anche un’epoca, sulla linea che si stende tra dramma e tragedia? Con un po’ di senso pratico, testo letterario e testo culturale sono equivalenti in questa operazione. È per questo che un’opera come l’Orestiade di Eschilo acquista per noi un senso sociologico. Nel più arcaico dei tragediografi greci troviamo l’espressione più pura di quella dispersione della colpa che ne costituisce l’insituabilità e, in sua vece, il dipanarsi autopoietico di una condizione oggettivamente tragica.

La trilogia eschilea, che si compone di Agamennone, Coefore ed Eumenidi, narra le sciagure degli Atridi, famiglia regnante di Argo, dall’assassinio di Agamennone fino all’assoluzione di Oreste per opera di Atena. Tuttavia, già il primo titolo, Agamennone, tradisce il vero senso della concezione eschilea della colpa. Agamennone è colpevole, certo, di aver sacrificato la figlia Ifigenia: così pare allo sguardo «ingenuo» della moglie Clitennestra, che cova vendetta.

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Tuttavia, ecco che sin da subito la colpevolezza si scompone. Si scompone in primo luogo scavalcando “il” colpevole Agamennone, precisamente tramite il concetto dell’ereditarietà della colpa: Agamennone è maledetto per le atrocità commesse dal padre Atreo – che pure, nella mitologia, è figlio di un dannato, Pelope, sul quale ricade la maledizione di Ermes. In un secondo senso, la colpevolezza si scompone perché il colpevole deve rispondere di più doveri, deve tener fede a più valori. Dinanzi la necessità di placare la rabbia di Artemide affinché permetta alla flotta di partire alla volta di Troia, Agamennone è chiamato a rispondere all’aut-aut tra il dovere di un Re nei confronti del suo popolo e il dovere di un padre nei confronti di sua figlia. Eschilo fa narrare il dilemma dallo stesso Agamennone nel parodo della tragedia omonima:

Peso fatale, se respingo il comando;/ma peso fatale è scannare, io stesso, /la figlia, gioiello della casa:/corrompo queste mani di padre/col sangue scorrente – la gola recisa –/ di una vergine, innanzi all’altare./ C’è scelta che escluda la colpa?/ Posso tradire le navi,/frodare i compagni del patto?/Può sopire la guerra dei venti/questo sangue di giovane donna./Mi deve scoppiare nell’anima/la febbre d’offrirla, immolata./Io devo! E così sia bene[1].

Due principi di scomposizione differenti, dunque. La regressione delle cause, che è tutt’uno con la regressione delle colpe. Un’eziologia al plurale che rende praticamente impossibile individuare il colpevole. Dall’altra parte, l’equivalenza sostanziale dei valori a cui rispondere, effetto della loro compresenza. Quello di «compresenza» è anche il concetto che meglio esprime il rapporto di non-esclusione che sussiste tra dramma e tragedia, nei termini in cui li abbiamo definiti. Un aspetto cruciale, in quanto la trilogia fa sfilare una lunga serie di personaggi che si affrettano nell’individuazione del colpevole. Clitennestra, le Erinni, Oreste ed Elettra, Apollo sono tutti portatori di un principio accusatorio, che declinano in maniera affatto differente. È Eschilo a disarmarli, a smussarne l’arsenale argomentativo, ora ponendoli l’uno contro l’altro, ora facendoli incalzare dal coro. L’opera dell’Orestiade si configura non già come la censura di ogni principio accusatorio in nome di un arcaico fatalismo, ma piuttosto come l’assedio letterario con cui il tragico relativizza il drammatico, ne mostra i punti ciechi, i postulati ingiustificati, le contraddizioni insolubili.

Il dilemma tragico, già spiegato nella vicenda di Agamennone, guadagna perspicuità e intensità nella vicenda principe, quella di Oreste. Forse eroe tragico per eccellenza, Oreste è obbligato ad uccidere la madre per vendicare l’assassinio del padre. La scelta più terribile, non soltanto per il proprio contenuto, ma anche in quanto imposta. In primo luogo, Oreste non è responsabile delle atrocità commesse dai suoi genitori o dai suoi avi. Egli deve però rispondere degli obblighi che gli eventi gli impongono. Oreste è un eroe assolutamente a-progettuale, il che lo rende meravigliosamente inattuale. Le nostre robinsonate contemporanee potrebbero eventualmente sposarsi con i progetti redentori di un Prometeo, ma cosa fare con Oreste? Gli eroi del nostro tempo sono uomini e donne che si sottraggono agli obblighi imposti dalle circostanze per affermare un principio di proprietà esclusiva sulla propria esistenza; Oreste è invece mosso dagli eventi, da principi sui quali non ha alcun potere.

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Oreste è l’inerte campo di battaglia sul quale si consuma la lotta di due valori, che Eschilo – o forse bisognerebbe qui dire «la grecità» – trasforma in due divinità: le Erinni da un lato, Apollo dall’altro. Le pretese del sangue si fanno dèi, di cui affittano la carne e la voce. Il dio è l’espediente con cui l’obbligo si trasforma in comando. Così, le Erinni impongono a Oreste la propria pena; così, Apollo obbliga Oreste a compiere il suo dovere, come racconta egli stesso nelle Coefore:

Suo [di Apollo] è il comando di varcare questo passo rischioso. Parole mi leva all’orecchio, acutissime: tempeste di brividi freddi minaccia, sul mio cuore rovente, se non mi aggrappo a chi colpì mio padre, per vibrargli un identico colpo. «Morte a compenso di morte» chiaro mi dice: e io, rabbia di toro a infliggere pene che nessuna taglia cancella. Se no, un caro prezzo mi costava: la vita! Tra una folla di amari tormenti!.

Oreste è stretto tra un obbligo e un divieto: virtualmente, è già colpevole. L’azione è una colpa, l’inazione è una colpa; gli dèi si assicurano che ad ogni opzione corrisponda una punizione. Oreste è nato colpevole: un serpente attaccato alla mammella di Clitennestra, a suggerne sangue e latte. E tuttavia, l’orrore non sta nella particolarità della condizione di Oreste, ma bensì proprio nella sua universalità. Oreste porta la fiaccola per l’umanità. Recita il coro: «Quale uomo, che sappia la storia, / può dire di essere nato/ all’ombra di un destino innocente?».

Nella narrazione eschilea, l’aporia tra l’istanza delle Erinni e l’istanza di Apollo è propriamente tragica in quanto non ha soluzione. Oreste, braccato dalle Erinni, si reca dunque ad Atene dove, unica, Atena può sciogliere il nodo. Cosa oppone Atena al groviglio di doveri e di colpe che il fato ha posto sulle spalle di Oreste? Il primo tribunale umano. Nell’ancestrale solco degli dèi legislatori, Atena oppone a colpe «divine» (potremmo dire «naturali») l’atto istituente.

Un atto potentissimo: opporre alle pretese di leggi extraumane un’istituzione sì di origine divina, ma pensata per gli uomini. Il tribunale si esprime tramite una votazione, che finisce in parità.
A quel punto, secondo le regole formulate insieme con l’istituzione del tribunale, Atena decide per l’assoluzione. Più che una contraddizione di quel senso civile e razionale inaugurato poco prima, la decisione della dea lo conferma: non esiste una soluzione dialettica del groviglio tragico.

Dunque, laddove le leggi eterne consegnano un nodo gordiano di colpe, la dea della Ragione, la madre del tribunale, non lo risolve: lo recide. Ammaestrando gli uomini per i dilemmi futuri. Ecco la conclusione dell’Orestiade: l’innocenza è una condizione pattizia.

Oreste, nato colpevole, è istituito come innocente. Peraltro, il senso più vero del patto sta nel vuoto che esso copre e che solo la decisione può colmare. La questione è sì espressa razionalmente: è giusto uccidere la madre per vendicare il padre? e tuttavia la stessa ragione (o la dea che la incarna) realizza sé stessa nell’atto di comprendere i propri limiti, assicurandosi una nuova fondazione.

Il senso dell’istituzione è dato dal sentimento di quanto la precede. Un ottimismo antropologico come quello condiviso da gran parte della filosofia politica moderna intenderà l’istituzione come oppressione, arbitrio che va a schiacciare il libero fluire di una societas humana fondamentalmente pacifica, genericamente innocente. Eschilo può descrivere, stavolta nelle Eumenidi, il tribunale come «fondamento di giustizia, slanciato all’eterno, che io [Atena] sto per fondare» perché ha in primo luogo dipinto un quadro a tinte fosche di quanto precede l’istituzione.

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Ha inteso il male come fatto e non come atto. In un contesto assolutamente differente, Rousseau scriveva, nel suo Discorso sull’origine della disuguaglianza, della fondazione della società civile, di cui vedeva il fondamento nella proprietà. Celebre il passo che recita:

Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare «questo è mio», e trovò altri così ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i pali o colmando il fosso, avrebbe gridato ai suoi simili: «Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; se dimenticherete che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, sarete perduti!» [2].

Nell’economia complessiva di una breve suggestione sul senso del tragico e sulla sua immediata traduzione politica, ha poco senso dare rilievo a quello che Rousseau intendeva come il contenuto primo della società civile, la proprietà. Ciò che è davvero rilevante è l’idea della fondazione del male cui la filosofia politica rousseauiana apre le porte.

Il racconto di sangue e orrori cui fa cenno Rousseau ha una genealogia ben precisa, con la radice piantata in un atto fondativo. Un atto il cui senso specifico precede il suo contenuto precipuo – appunto, la proprietà. Le terribilità della storia sono l’ovvio corollario di un unico atto; l’univocità della causa rimanda alla contingenza dell’effetto.

Contingenza, evitabilità, atto: la filosofia politica rousseauiana si presenta come una filosofia politica del dramma. Sviluppo specifico di una conflittualità asimmetrica tra il valore di una naturalità prospera e il disvalore dell’avanzare dell’arbitrio e del sopruso. Diversamente, il racconto dell’orrore, che in Eschilo è il contenuto narrativo dell’intera trilogia, precede la fondazione simbolica della società civile, che è l’opportuna soluzione di una conflittualità indecidibile e simmetrica, meravigliosamente restituita nel dualismo più viscerale tra le ragioni del padre contro le ragioni della madre. La filosofia politica eschilea è una filosofia politica della tragedia. Bisogna fare attenzione, tuttavia, a non confondere una struttura concettuale con un tono letterario.

L’ottimismo antropologico di Rousseau conduce ad una filosofia della storia pessimistica, segnata irrimediabilmente dall’impossibilità di liberarsi dalle catene della società e di invertire il senso corruttore del progresso. Di contro, l’opera eschilea si conclude con una prospettiva speranzosa, espressa nella trasformazione delle Erinni in Eumenidi. Una filosofia politica tragica che sfocia nella desostanzializzazione del dramma, e dunque nella conclusione della tragedia.

Cosa significa questo «ottimismo tragico» che ci comunica Eschilo? Esso non va confuso con l’ottimismo dell’oblio, del colpo che annienta il passato e permette un inizio nuovo, ingenuo, puerile. Atena invita le Eumenidi a vivere in città, dove saranno oggetto di culto. Nella traduzione di Pasolini, Atena recita: «Grandi, inquiete, misteriose potenze, regolerete ogni rapporto umano. Chi non capisce che è giusto accettare tra noi queste primordiali divinità, non capisce i contrasti della vita [3]».

Le Eumenidi contengono in sé lo spettro delle Erinni, con il loro sguardo inquietante sulla città futura. Il grande assedio letterario dell’Orestiade si rivolge contro il lettore nel suo trasformarsi in memorandum: contro una civiltà dei tribunali, che trova nel giudizio la verità della propria assoluzione, il permanere spettrale delle Erinni significa il ricordo dell’artificialità e dell’infondatezza di ogni giudizio, il sospetto insopprimibile di una colpevolezza assoluta e insoluta. Avere memoria delle Erinni è un obbligo civile, in quanto ricordo del senso del tragico, senza il quale l’uomo si confonderà col giudice e il dialogo con il verdetto. La finzione dell’innocenza verrà confusa come condizione naturale. Due millenni e mezzo dopo, possiamo dire di aver custodito il senso del tragico?

Pasquale Noschese

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[1] Dalla traduzione di Ezio Savino
[2] Dalla Grande Antologia Filosofica, Marzorati

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