Una ventata di teatro europeo d’avanguardia è giunta a Milano grazie alla collaborazione fra Zona K e Teatro Franco Parenti: She She Pop, collettivo berlinese quasi totalmente femminile che dagli anni ’90 si è imposto a livello internazionale. “Collettivo” significa lavorare insieme, dalla composizione dei testi alla pratica scenica e alla regia, una “comunanza” che muove dalla condivisione di domande e problemi, rivolti poi alla micro-comunità del pubblico. Quali sono i materiali di questo teatro di ricerca post-teatrale? Scintillante ironia, uso estetico delle immagini, intelligente calibratura scenica, materiale autobiografico stilizzato e al tempo stesso potenziato da richiami intertestuali.
Nel 2010 avevano coinvolto sulla scena i propri padri con Testament, una rilettura del Re Lear di Shakespeare, per riflettere sui rapporti padre-figlia, in una continua alternanza fra vita vera e rappresentazione. In Sacrificio di Primavera (Frühlingsopfer, 2014), lo spettacolo appena visto a Milano (in tedesco con sovratitoli in italiano) è il turno delle madri.
Madri “inscatolate” – magiche alchimie
L’impatto visivo è subito forte. Quattro pannelli-schermi sono appesi in verticale, sottili, volatili, colorati: su queste strisce contigue, ma separate da corridoi di vuoto (attraversati dalle performers in carne ed ossa), sono proiettate le immagini-video in gigantografia delle quattro madri, che coraggiosamente hanno accettato di farsi co-autrici e attrici, insieme alle figlie. Anche loro a Berlino sono salite su un palco, per farsi riprendere da una videocamera e “inscatolare” nelle proiezioni che ora vediamo. Intanto le figlie vengono a posizionarsi davanti a noi sul palco reale. Lo spettacolo è impostato sull’interazione, come se avvenisse in contemporanea, fra la realtà fisica delle performers e i grumi di pixel delle proiezioni. L’uso sapiente della tecnologia crea magiche alchimie: ad esempio le madri “virtuali” più volte si scambiano fra loro oggetti, e il gesto supera l’interstizio di vuoto che le separa; non solo, la performer “riceve” l’oggetto, che diventa fisico davanti ai nostri occhi, come in una staffetta tra generazioni, o forse una conquista. Ma non è tutto.
La prima parte dello spettacolo si regge sulla separazione dei mondi. Le due “squadre” si presentano, con un fuoco di fila di brevi frasi taglienti e impostate sulla contrapposizione: “Alcune di noi” / “Alcune di voi”, in uno scambio reciproco di stereotipi. La vecchia generazione è quella che ha vissuto la paura dei bombardamenti, la fame, la subordinazione all’uomo; le giovani invece ignorano il senso della rinuncia e del sacrificio, hanno tutti i diritti, possono permettersi di fare le intellettuali. Ma sono queste donne mature che hanno forgiato le giovani, ad esempio insegnando il valore dell’essere indipendenti. Dunque il “chi siamo” e il “chi eravamo” si confondono in un gioco divertito di antitesi e specularità.
Quando le anziane, in modo frammentario, riflettono su di sé, la parola che torna più volte è “vittima”: di un’educazione fascista, di madri severe, di un sistema maschilista, di rinunce alla propria creatività e aspirazioni imposte dai mariti e poi dai figli… Le madri hanno deposto a terra una fune rossa, che in un’ideale continuità le figlie allungano ora sulla scena a creare un cerchio. Un’immagine simbolica: forse il “filo rosso” che lega i due mondi è la circolarità condivisa del sentirsi donne, ma al tempo stesso questa traccia definisce il cerchio di un rituale, come si chiarirà fra poco.
La Sagra della primavera di Stravinskij
La seconda parte infatti si muove soprattutto sui ritmi del famoso balletto Le sacre du printemps di Igor Stravinskij, presentato nel 1913 a Parigi. Il compositore ha immaginato un rito sacro pagano della sua Russia: i vecchi saggi, seduti in cerchio, osservano la danza di una vergine, che dovrà ballare fino alla morte per propiziare la benevolenza degli dèi e inaugurare con il suo sangue l’arrivo della primavera. Madri e figlie seguono la musica con movimenti scarni e ritmati: piedi a terra, tamburellare di dita, e poi corse, piroette, braccia che si aprono e chiudono, in uno sventolare di drappi colorati, che coprono e svelano volti e corpi. Le figlie imitano le madri, in duetti stranianti ma poetici. Occorre ricordare che tutto il meccanismo è stato studiato a tavolino, il crinale fra spontaneità e finzione è sempre ambiguo: le madri “agiscono” in scena ciò che le figlie chiedono loro, in una coralità a tratti imbarazzata e soprattutto divertita. Su tutto infatti domina l’ironia, che scivola dal perturbante all’irriverenza, con leggerezza.
Il sacrificio
Il tema della danza è “Opfer”, il sacrificio. In che senso? Le madri si sono sacrificate per le figlie, che anch’esse si sentono vittime, divise fra il tentativo di imitare il modello e di distanziarsene per trovare la propria identità. Le madri, enormi e separate, incombenti sulla scena, somigliano a totem che esigono venerazione e affetto. Ecco il portentoso colpo di scena: le figlie, davanti a una videocamera, diventano immagine che può “dialogare” con le figure delle madri. E infatti, in una sorta di regressione uterina, siedono loro in grembo oppure giocano a sovrapporre i tratti del viso. Ma la fusione non è perfetta, e anzi quei volti si deformano, urlano, sembrano fagocitare la prole, che trova la forza di ribellarsi. Il “sacrificio” presenta dunque una duplicità ambigua: è abnegazione, ma può diventare anche annientamento dell’altro per renderlo simile a me.
Un’autopsia delicata degli affetti, in una veste esteticamente curata, attenta all’intreccio dinamico di parole e azione, corpo e immagine. La conclusione di madri e figlie è: «Bisogna dire con gesti e musica che è stato straordinario». Che cosa? Certamente, questa condivisione in performance. Però anche l’avventura di essere donna, ieri, oggi e domani.
Sacrificio di Primavera (Frühlingsopfer)
di e con She She Pop (collettivo berlinese) e le loro madri
progetto Zona K e Teatro Parenti
5-6 giugno 2018, Teatro Franco Parenti, Milano