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Storia degli attentati di Fiumicino e degli anni di Settembre Nero in Italia

22 minuti di lettura

Il 27 dicembre del 1985, un commando arabo-palestinese inviato da Abu Nidal, una delle voci più intransigenti della “questione mediorientale”, attacca l’aeroporto di Fiumicino causando 19 morti e oltre 120 feriti. È la seconda volta che lo scalo internazionale di Roma viene scelto come bersaglio dai fedayyn, dopo quello del 17 dicembre 1973, che portò alla morte di 34 persone in quello che fu il più sanguinoso atto degli anni di piombo fino alla strage alla stazione di Bologna del 1980. 

27 dicembre 1985, Fiumicino – Gli stanchi addetti del turno di notte incrociano i volti altrettanto provati degli impiegati in entrata all’aeroporto intercontinentale Leonardo da Vinci di Roma-Fiumicino: sono le otto del mattino del 27 dicembre 1985. Quattro uomini ben vestiti e dall’aria distinta si avvicinano agli sportelli della El Al, dove alcuni passeggeri in coda attendono di imbarcare i bagagli. Accanto agli sportelli della compagnia di bandiera israeliana sono collocati quelli dell’americana TWA. Il drappello arretra, le maglie del gruppo si allentano, guadagnano uno strategico e collaudato distanziamento dall’obiettivo. Poggiano a terra le borse e rapidamente assemblano i fucili d’assalto cecoslovacchi vz. 58 con calcio pieghevole, d’aspetto pressoché identici agli AK-47 sovietici. Forse è un passeggero a cogliere per primo l’anomalia con la coda dell’occhio, forse un addetto alla sicurezza israeliano, quasi senza dubbio non uno delle decine di agenti di Pubblica Sicurezza in servizio all’aeroporto. Il gruppo di fedayyn attira l’attenzione, ma le armi sono imbracciate, i caricatori inseriti, i proiettili 7,62 alloggiati nella camera di scoppio. Qualcuno lancia una granata a frammentazione prodotta dal Patto di Varsavia: è l’URSS – ma solo alle spalle di alcuni dei principali Paesi non-allineati – il mecenate del terrorismo arabo-palestinese, più per necessità geopolitica che un autentico spirito di solidarietà.

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Il gruppo di fuoco sventaglia raffiche ad altezza d’uomo, dapprima ampie e casuali, poi più ravvicinate. I bersagli umani vengono scelti in modo indiscriminato, ma mirati con cura. Gli agenti di polizia giungono con netto ma forse inevitabile ritardo, quando le raffiche di mitra già echeggiano nel terminal di Fiumicino. Le intenzioni dei mujāhid di Abu Nidal non prevedono alcuna forma di sopravvivenza, via di fuga o pratica di occultamento: la vita degli esecutori è subordinata alla riuscita delle azioni. A rivelarlo senza troppi stupori è l’unico terrorista catturato, Ibrahim Khaled, in seguito condannato a trent’anni. Riferirà inoltre che Abu Nidal, kunya di Ṣabrī Khalīl al-Bannā, fondatore del Consiglio Rivoluzionario di al-Fatah, è l’ispiratore, l’architetto e il finanziatore dell’attacco. Tre fedayyn vengo abbattuti della polizia, ma con loro cadono anche sedici civili e oltre ottanta rimangono feriti. Tra i morti, un diplomatico statunitense, un agente di sicurezza israeliano e il generale Donato Miranda Acosta, addetto militare del Messico in Italia.

Pochi minuti dopo, in concomitanza quasi simultanea, tre terroristi estraggono le loro armi automatiche in un altro aeroporto, quello di Vienna-Schwechat. Colpiscono quarantaquattro persone, quattro muoiono, ma stavolta tentano la fuga a bordo di un’auto rubata nel parcheggio, difficile stabilire se per istinto d’autoconservazione o per una decisione prestabilita. La polizia austriaca insegue gli attentatori, le auto in corsa si scambiano raffiche di mitra e colpi di pistola. Uno degli occupanti morirà in ospedale, gli altri due saranno arrestati.

attentato fiumicino 1985

Amman, Settembre 1970Settembre Nero, per poco meno d’un decennio il principale gruppo operativo dell’OLP, poi divenuto scheggia impazzita, non esiste già più nel 1985. Non nella fisionomia nota ai servizi di sicurezza dei paesi europei, i vari comitati di liberazione palestinesi considerano la sigla inutilizzabile, molti l’hanno da tempo disconosciuta. Sono gli anni della seconda invasione del Libano da parte delle truppe di Gerusalemme, seguita all’Operazione Litani del ’78. Nel 1983, un attentato di Hezbollah uccide 241 marines o una trentina di legionari francesi causando il ritiro dei corpi di pace delle Nazioni Unite da Beirut Ovest. L’anno prima, le Forze di Autodifesa israeliane hanno attuato una ritirata strategica dai territori occupati del Libano del Sud per coprire le carneficine dei cristiani maroniti e dei falangisti di Eli Hobeika nei campi profughi di Sabra e Shatila, avvenuti tra il 16 e il 18 settembre ottantadue. 

Nelle indagini del giudice Priore s’ipotizza che il piano originale prevedesse il dirottamento di un Boeing 707 carico di passeggeri da far schiantare su una città israeliana o una capitale europea. Checché se ne possa pensare, non sono stati gli arabi a introdurre il martirio nella jihad. Il Kamikaze non è che il tifone divino che salvò un Giappone poco più che preistorico da due tentativi d’invasione orditi da Kublai Khan; nella seconda guerra mondiale diviene il titolo onorifico di cui si fregiano i piloti nell’atto di estremo sacrificio contro i navigli americani.

Pochi mesi prima del terribile quanto celebre attentato di Settembre Nero ai Giochi della XX Olimpiade di Monaco, nel quale cadde vittima l’intera compagine israeliana, il 30 maggio 1972, intorno a mezzogiorno, gli pneumatici di un aereo Air France proveniente da Roma graffiano la pista dell’Aeroporto Internazionale di Lod – oggi Ben Gurion-Tel Aviv.

Dalle scalette scendono alcuni passeggeri giapponesi, probabilmente membri di un’orchestra. Portano custodie di violino. Non destano alcuna attenzione mentre assemblano i pochi componenti di quegli stessi fucili d’assalto cecoslovacchi utilizzati a Fiumicino nel 1985 e ad Atene nell’agosto del 1973.

Tsuyoshi Okudaira, uscito all’esterno, ingaggia una brevissimo conflitto con la polizia, una donna in fuga viene colpita alle gambe, una navetta straripante di passeggeri El Al è incastrata nel fuoco incrociato. Uno rombo assordante silenzia la sparatoria: Okudaira si è fatto saltare in aria con una bomba ad ananas F1, stringendola con due mani all’altezza del petto dopo aver rimosso la spoletta. I testimoni riferirono di aver sentito gridare una frase in giapponese. Banzai!, riferiscono alcuni testimoni ascoltati dalle reti nelle ore successive, e di avergli visto assumere una particolare posizione. Celebrativa più che di combattimento, con le braccia alte e i gomiti in fuori, la stessa assunta dai militari dell’Esercito del Sol Levante rimasti senza munizioni nella forsennata difesa del monte Suribachi a Iwo Jimo, cui venne dato l’ordine di suicidarsi con le granate.

Kozo Okamoto tenta di fare lo stesso, ma è raggiunto da numerosi colpi e cade attraverso una vetrata in frantumi. Trasportato in ospedale, viene operato d’urgenza e salvato per miracolo. Dopo una lunga degenza, è tradotto in giudizio e condannato all’ergastolo. Lo Shin Beth tende l’indice contro i guerriglieri dell’Armata Rossa Giapponese addestrati a Baalbek, in Libano, nei campi dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e dall’FPLP. La Nion Sekigun, la Brigata Internazionale Anti-Imperialista – altrimenti detta Armata Rossa Giapponese – ha agito proprio per quest’ultimo, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, l’organizzazione paramilitare d’ispirazione maoista-leninista fondata da George Habash a Ramallah pochi giorni dopo la sconfitta di Nasser e la perdita del Sinai nella Guerra dei sei giorni.

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Sono guerriglieri comunisti giapponesi, fregiati dei simboli e dei colori dei compagni cinesi, nemici naturali dell’Imperatore, a sdoganare l’attentato suicida nel contesto mediorientale. Per molto tempo, la variegata ed eterogenea cosmografia del terrorismo palestinese guarderà agli attentati suicidi con reticenza e sospetto. È la revanche del fondamentalismo islamico, la dottrina dell’integralismo sunnita promosso sin dagli anni venti dai Fratelli Musulmani di al-Banna e abbracciata dalla maggioranza del nuovo nazionalismo palestinese, a legalizzare il martirio del mujaheddin, «colui che combatte fino alla morte».

I colpi dei militanti dell’Armata Rossa Giapponese raggiungono ventisei persone, undici pellegrini cristiani provenienti di Puerto Rico e il celebre biofisico Aharon Katzir, fratello dell’Ephraim, anch’egli biofisico, che l’anno dopo sarà elettro Presidente di Israele. Una storia non dissimile da quella accaduta a Benjamin Netanyahu, fratello del comandante e unico membro caduto del commando che attuò la leggendaria Operazione Entebbe, per la liberazione gli ostaggi all’interno dell’Airbus A300 fermo sulla pista ugandese. Il raid divenne l’archetipo delle operazioni delle forze speciali in territorio straniero; il commando atterrò a Entebbe nella notte, uccise tutti i dirottatori, compreso un ostaggio colpito per errore  – un secondo era stato ucciso precedentemente nella ritorsione di Idi Amin Dada, insieme a una signora anziana in precarie condizioni fisiche, per questo rilasciata dai dirottatori.

Israele, 1989 –  In luglio, un giovane militante del  Movimento per il Jihad Islamico in Palestina tenta di strappare il volante dalle mani del conducente del bus 405 Tel Aviv-Gerusalemme. Nella colluttazione, il ragazzo riesce a sterzare abbastanza da far precipitare l’affollato veicolo in un burrone, causando un’esplosione che uccide sedici passeggeri. Eppure, le prime cinture esplosive non esploderanno prima degli anni novanta. Dopo gli scontri intestini del 2006, 74 dei 132 seggi del Consiglio legislativo palestinese sono occupati dal Movimento Islamico di Resistenza noto come Hamas, affiliato ai disciolti Fratelli Musulmani d’Egitto, che ha scalzato al-Fatah e i militanti laici e socialisti dalla guida dell’Autorità Nazionale.  

Fiumicino, 17 dicembre 1973 – Quello del 27 dicembre 1985 non è il primo atto del terrorismo palestinese in Italia, né il più cruento. Alle dodici e cinquantuno del 17 dicembre 1973, cinque uomini arabi estraggono i kalašnikov a pochi passi dal posto di guardia dei metal detector; si fanno strada nel terminal di Fiumicino sparando all’impazzata diretti verso le pista di atterraggio, dove tre aerei sono in sosta. Le persone presenti si gettano a terra, due uomini giacciono inermi in una pozza di sangue, un dipendente dell’Ethiopian Airlines precipita da una finestra in frantumi nel tentativo di fuggire ai proiettili. Una volta all’esterno, puntano il Boeing 707 del volo 110 per Tehran – ignorando del tutto il volo Air France lì accanto – con scalo a Beirut, colpiscono la fusoliera e i passeggeri che tentano di abbandonarlo. Saliti sulle scalette, lanciano all’interno alcune granate al fosforo e una RKG anti-carro. Trenta delle trentaquattro vittime dell’attentato muoiono tra le fiamme o soffocati dai fumi dell’incendio divampato nel velivolo, tra di loro la famiglia di un funzionario Alitalia, Giuliano De Angelis, tra cui la figlia Monica, d’appena nove anni, e un finanziere giunto sul posto per contrastare gli assalitori.

attentato di fiumicino 1973

Nell’aeroporto di Fiumicino, in quel momento, sono in servizio 117 agenti: 9 carabinieri, 46 finanzieri e 62 agenti di Polizia, otto dei quali impegnati nel servizio di sicurezza anti-sabotaggio. Nonostante l’allarme lanciato dalla Torre di Controllo, ritrasmesso sulle frequenze di Polizia, Carabinieri, Esercito e Guardia di Finanza, l’attacco è preciso e fulmineo. In meno di cinque minuti, il commando giunge in prossimità del secondo obiettivo, il Boeing 737 Lufthansa in attesa del permesso di decollo per Monaco di Baviera. Fanno salire a bordo gli ostaggi trascinati sulla pista per fare da deterrenti a un eventuale contrattacco, in gran parte agenti della dogana. Entrati in cabina, ordinano ai piloti di muovere sulla pista di rullaggio; l’aereo è seguito da decine di veicoli di Carabinieri e Guardia di Finanza. Alle 13:32, a circa quaranta minuti dall’inizio dell’attacco, il velivolo decolla alla volta di Atene. I terroristi contrattano per diciotto ore con le autorità greche la scarcerazione dei due terroristi arrestati in uno scambio di prigionieri. Snervati dall’attesa, dalla fame e dalle trattative, i dirottatori uccidono l’addetto ai bagagli Domenico Ippoliti, il cui corpo viene lasciato cadere sulla pista come atto di forza rivolto al governo greco. Al rifiuto dei due detenuti palestinesi di salire a bordo del Boeing, probabilmente per via del timore delle ripercussioni dovute alla loro carcerazione seguita all’attentato d’agosto, il commando si vede costretto a decollare di nuovo. Stavolta per Beirut, il cui aeroporto viene chiuso e occupato dalle camionette dell’esercito, come pure fanno Damasco e Cipro, dopo aver negato il permesso di sbarco. L’aereo si ferma definitivamente a Kuwait City dove gli ostaggi vengono liberati e i dirottatori consegnati direttamente alla dirigenza dell’OLP senza subire processi.

Un garbuglio diplomatico che avvolge l’evento insieme ad epiloghi e antefatti, che tutt’oggi, a distanza di quarant’anni, non è semplice districare. Non esistendo trattati che regolarizzassero l’estradizione dal Kuwait, l’Italia non inoltrò mai una richiesta formale, nonostante la diatriba internazionale su quale nazione avrebbe dovuto processarli e la possibilità di utilizzare gli alleati atlantici per esercitare pressioni sul piccolo stato del Golfo. Il presidente egiziano Sadat, l’anno successivo, riuscì a organizzare la traduzione al Cairo degli attentatori e l’istituzione di un processo, col Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina come commissario speciale, per azione non autorizzata.

La Repubblica italiana, come osservarono anche i cronisti coevi, non aveva la minima intenzione di lasciare alla propria magistratura l’onere di processare i terroristi, per l’elementare quanto innegabile presupposto secondo cui la presenza dei fedayyn palestinesi nelle carceri italiane sarebbe diventato valido pretesto per nuovi attentati volti a forzare la loro scarcerazione. Non a caso, pochi mesi dopo, anche gli autori del fallito attentato di Ostia, sul quale erano stati apposti i sigilli del segreto di Stato, vennero liberati in segretezza già in ottobre. Datato 5 settembre, si scoprirà essere postdatato dalle autorità italiane, il piano prevedeva l’impiego di un lanciamissili spalleggiabile per l’abbattimento del volo El Al sul quale viaggiava il Primo Ministro israeliano Golda Meir.

Abu Nidal – Se il primo attentato di Fiumicino è bollato come l’azione selvaggia di una cellula solitaria, o impazzita, gli attacchi coordinati dell’ottantacinque sono il frutto rivendicato dell’opera di Abu Nidal. Epurato  dal Consiglio dai fedeli di Arafat, venne processato e condannato a morte in contumacia già nel 1974, sulla carta per l’omicidio di palestinesi moderati e giovani delatori, di fatto per le divergenze circa le richieste di riscatto per i dirottamenti e i sequestri di occidentali. Ospitato in Yemen del Sud, Siria e Iraq, muore nel 2002, forse ucciso dai militari di Saddam Hussein o da sicari privati a Baghdad. 

Già due anni prima di quel secondo, insanguinato atto della jihad di Fiumicino, Abu Nidal promuove quello che è stato definito come il più grave attacco antisemita dopo il rastrellamento degli ebrei del Quadraro del 1944.

Nel giorno di shabbat del nove ottobre si celebra il bar mitzvah di varie dozzine di adolescenti della Comunità ebraica romana. Nel Tempio Maggiore di Roma sono presenti almeno trecento persone, moltissimi bambini con le loro famiglie. Cinque terroristi in giacca e cravatta si avvicinano alla Sinagoga per disporsi davanti all’entrata e all’uscita d’emergenza sulla Via Catalana. Vengono lanciate tre bombe a mano e sparati alcuni caricatori. Un bambino di due anni cade vittima dello scoppio, una quarantina i feriti trasportati ospedale.

L’Italia compare nel quadrante del mirino di Settembre Nero già dal 1972. Il volo LY 444 viene costretto ad un atterraggio di emergenza a seguito di un’esplosione nel vano bagagli il sedici agosto. Il quattro, alcune cariche esplodono incendiando dei segmenti dell’oleodotto del SIOT Triste-Ingolstadt. L’incendio coinvolge numerosi serbatoi, le fiamme s’innalzano per oltre centocinquanta metri e le colonne di fumo per molte centinaia. Servono cinque giorni per circoscrivere l’incendio, isolare le condutture ed attendere che la combustione centosessantamila tonnellate di greggio si esaurisca. Vengono condannati in contumacia a ventidue anni i membri della cellula algerina di Mohammed Boudia.

Settembre Nero è il nome attribuito all’insurrezione giordana ordita in quel mese del 1970, dai raggruppamenti delle organizzazioni palestinesi decise a rovesciare la monarchia di Husayn I, che aveva iniziato a espellere i rifugiati plaestinesi. Centinai di militanti, sedicenti rivoluzionari e guerriglieri si recano in Giordania per istruirsi nei numeri campi d’addestramento e partecipare alla rivolta, tra cui anche il famigerato Carlos lo Sciacallo, autore dell’assalto al quartier generale dell’OPEC a Vienna del 21 dicembre 1975 e della bomba alla stazione Saint-Charles di Marsiglia esplosa l’ultimo dell’anno del 1983. I fedayyn danno vita all’organizzazione come una piccola cellula indipendente al servizio dell’FPLP e dell’OLP, raccogliendo principalmente volontari di al-Sa’iqa – le Avanguardie per la Guerra Popolare di Liberazione del Partito Ba’th. Nonostante l’omicidio del primo ministro giordano Wasif Tell nel settantuno e il sabotaggio di alcuni impianti elettrici e petrolchimici in Europa, la sigla è quasi del tutto sconosciuta nel settembre del 1972, al momento dell’irruzione al villaggio olimpico di Monaco. L’anno dopo, Settembre Nero si attribuisce l’assassinio dell’addetto militare statunitense a Khartum, oltre che l’attentato di Fiumicino del ’73, atto che segna la sua definitiva squalifica da parte delle autorità fedeli ad Arafat. Riesce tuttavia a sopravvivere all’Operazione Ira di Dio, la decennale opera di smantellamento e di assassinio dei suoi vertici organizzata dal Mossad, cui Steven Spielberg ha dedicato il film Munich. Dieci anni e numerosi tentativi occorrono ai servizi israeliani per eliminare il suo capo indiscusso, il playboy palestinese Alì Hasan Salama, figlio del patriota della Lega Araba e supremo comandante dell’Esercito del Sacro Jihad, Hasan Salama, perito durante nella al-Nakba, «il disastro» della prima guerra arabo-israeliana del ’48.

Giacomo Cavaliere

Redazione

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