Molti definiscono il più celebre romanzo di Natalia Ginzburg (al secolo Levi), Lessico Famigliare, un’autobiografia. Tale definizione, però, per quanto diffusa risulta riduttiva: raramente in questo libro Natalia parla di se stessa, concentrandosi piuttosto sui racconti che riguardano l’universo di personaggi reali che la circondano.
«Non avevo voglia di parlare di me. Questa non è la mia storia ma piuttosto, pur con vuoti e con lacune, la storia della mia famiglia».
Molto più di un’autobiografia
Lessico Famigliare, quindi, si presenta come un intreccio di storie: a quelle di genitori, nonni e fratelli si legano quelle di grandi personaggi della politica e del mondo industriale o culturale italiano. Tra questi spunta la figura del collega enaudiano e grande amico Cesare Pavese.
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L’ironia di Cesare Pavese
Molto bello è il ricordo di Pavese che Natalia dipinge nel corso del romanzo, attraverso la rievocazione di chiacchierate e discussioni. Dell’autore e amico ricorda con nostalgia l’ironia che, dice, «era forse tra le cose più belle che aveva» anche se non fu mai in grado di riportarla nelle cose che amava di più: le donne e i libri.
La sezione più dolorosa
Quando Natalia parla di sé sembra quasi censurare i racconti. Così non ci viene raccontata subito la morte del marito Leone, prigioniero dei fascisti. Il racconto viene posticipato, quasi eluso e dato per scontato. Certo il dolore viene percepito comunque, ma in modo più pacato – quasi filtrato. Nel lungo paragrafo in cui parla della morte di Pavese, invece, ci dice esplicitamente che l’amico si è ucciso e prova a ricostruire anche le ragioni di tale gesto.
La ragione profonda: l’imprevisto
Perché Pavese, dunque, si uccise? Ci dice la Ginzburg: per evitare ogni imprevisto. Lui che tanto odiava gli imprevisti e i cambi di programma, con la morte sceglie il suo personale finale.
«Pavese si uccise un’estate che non c’era, a Torino, nessuno di noi. Aveva preparato e calcolato le circostanze che riguardavano la sua morte, come uno che prepara e predispone il corso d’una passeggiata o d’una serata. Non amava vi fosse, nelle passeggiate e nelle serate, nulla d’imprevisto o di casuale. […] L’imprevisto lo metteva a disagio. Non amava essere colto di sorpresa».
Un calcolo preciso
La morte di Pavese non nasce che da un calcolo preciso, un guardare oltre la morte. Lo sguardo di chi non ha mai amato la vita. Natalia lo ammette senza giudizi e con sguardo lucido, senza lasciare mai l’affetto di un’amica che sa che il più grande errore di Cesare Pavese è stata l’astuzia.
«Nulla è pericoloso come questa sorta di errori. Possono essere, come lo furono per lui, mortali; perché dalle strade che si sbagliano per astuzia, è difficile ritornare. Gli errori che si commettono per astuzia, ci avviluppano strettamente: l’astuzia mette in noi radici più ferme che non l’avventatezza o l’imprudenza».
Fonte immagini: Langhe.net