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Terremoto in Siria e Turchia: il nodo degli aiuti umanitari

Nuove scosse di terremoto tra Siria e Turchia indeboliscono ancora di più la zona già devastata. Oltre ai ritardi dei soccorsi, la Siria è ulteriormente stremata dalla guerra.

10 minuti di lettura

Siria e Turchia continuano a tremare. Altre due scosse hanno colpito dopo che il terremoto del 6 febbraio ha devastato città e popolazioni intere. Gli aiuti umanitari però ancora faticano ad arrivare nelle zone contese del territorio siriano.

Il 20 febbraio due scosse di magnitudo 6.8 e 6.5, con epicentro a Hatay, hanno colpito di nuovo il sud est della Turchia e il nord ovest della Siria. La regione, situata in corrispondenza della faglia che divide la placca anatolica da quella arabica, è ad altissimo rischio sismico. L’ulteriore colpo di grazia del 20 febbraio è arrivato appena due settimane dopo il devastante sisma del 6 febbraio, di magnitudo 7.8. La catastrofe di inizio febbraio ha fatto crollare palazzi e aperto voragini nelle strade da Gazantiep fino ad Aleppo, provocando oltre 41mila vittime e 1.6 milioni di sfollati solo in Turchia, mentre in Siria le morti ammontano almeno a 5900 e quasi la metà delle 4 milioni di persone che vivono nel territorio nordoccidentale erano già sfollate prima del terremoto a causa della guerra civile. Ora il bilancio può solo essere peggiorato. A questo tragico conteggio si aggiungono, dopo le scosse del 20 febbraio, altri sei morti e oltre duecento feriti.

I soccorsi in Turchia e la risposta di Erdogan al terremoto

In Turchia il ritardo dei soccorsi è stato prontamente denunciato dalla popolazione, portando il presidente Recep Tayyip Erdogan addirittura a bloccare Twitter per censurare chi manifestava la propria indignazione tra il 7 e l’8 febbraio. Le difficoltà nell’organizzare i soccorsi in Turchia sono apparse prettamente logistiche e si sono limitate alle giornate immediatamente successive al sisma. Fino a che la macchina degli aiuti internazionali non si è messa in moto, il governo turco è rimasto colto alla sprovvista. C’è chi ha criticato questa mancanza di prontezza definendola negligenza, Erdogan ha ribattuto etichettando queste voci critiche nei confronti del governo come «disonorevoli». Successivamente le autorità turche hanno arrestato diciotto persone per aver pubblicato post provocatori riguardo la risposta governativa al terremoto e ha identificato altre centinaia di gestori di account per lo stesso motivo.

Recep Tayyip Erdogan

Dopo quest’impasse i soccorsi hanno operato incessantemente in Turchia, anche grazie ai consistenti aiuti internazionali arrivati, sia in termini di risorse economiche che di volontari specializzati che hanno preso parte alle operazioni di search and rescue nel paese.

In supporto alla Turchia sono accorsi Cina, Regno Unito, Stati Uniti, paesi europei come Italia, Germania, Francia, Spagna, Polonia, Austria, Grecia, Romania, Croazia e l’Unione Europea stessa, India, Pakistan, Giappone, Russia e paesi dell’est e balcanici come Serbia, Montenegro e Moldavia.

Siria devastata da anni di guerra civile oltre che dal terremoto

Molti di questi paesi si sono detti disponibili a sostenere anche la popolazione siriana attraverso la collaborazione e il supporto delle attività dell’ONU. Tuttavia vista l’instabilità politica della Siria, devastata da oltre dieci anni di guerra civile e le cui istituzioni governative sono nelle mani del dittatore supportato dal Cremlino Bashar al-Assad, fornire assistenza umanitaria è diventato un problema politico.

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Questo vale in particolare per il nord-ovest della Siria, che oltre ad essere proprio la regione colpita dal terremoto è anche tra le aree più contese del paese. In questo territorio infatti sono presenti le forze curde SDF nel Rojava che resistono alle massicce offensive turche. Il progetto di Erdogan da anni è infatti quello di costruire una zona cuscinetto, e per fare ciò ha già occupato alcune zone dentro i confini siriani. I curdi continuano anche a combattere contro le cellule sopravvissute dell’ISIS e contro le altre formazioni jihadiste, anche legate ad Al-Qaeda, come al-Nusra. Infine, alcune importanti città nell’area sono sotto il controllo di Assad, tra queste anche Aleppo, che è stata colpita duramente dal sisma.

In Siria, il flagello del terremoto si è quindi aggiunto a quello della guerra civile che tormentava la popolazione già da anni e che sta ora impedendo l’arrivo capillare, destinato a tutte le aree e a tutti gli abitanti del territorio, degli aiuti umanitari.

L’isolamento della Siria nord-occidentale e le difficoltà nei soccorsi

L’isolamento della regione, sia territorialmente che politicamente, è uno tra i fattori chiave per comprendere la gravità della situazione. L’unico valico di confine per accedere al territorio siriano del nord overst, anche per l’ONU, era, fino al 6 febbraio, il passaggio di Bab al-Hawa sul confine turco. Nei giorni successivi la prima tremenda scossa però, le strade per percorrerlo erano inagibili. Per questo la popolazione siriana ha dovuto attendere per tre giorni, nei quali uomini e donne hanno scavato con le mani sotto le macerie in cerca dei sopravvissuti, l’arrivo dei soccorsi ONU, che sono entrati in Siria il 9 febbraio.

Era impossibile per le Nazioni Unite, così come per tutte le altre organizzazioni internazionali, raggiungere il territorio siriano colpito per assistere la sua popolazione attraverso altre vie. Bab al-Hawa era infatti l’unico accesso autorizzato per motivi umanitari. Ad oggi, l’ONU ha ottenuto l’assenso del governo siriano per l’apertura di altri due valichi da utilizzare per raggiungere le zone colpite nella Siria nord-occidentale partendo dalla Turchia, Bab al-Salameh e Bab al-Rai, la cui possibilità di utilizzo per ora è però garantita solo per tre mesi.  

Come Bashar al-Assad vuole sfruttare la tragedia del terremoto

Tuttavia nemmeno l’apertura di questi altri valichi è sufficiente a far sì che chiunque in Siria si trovi in condizioni di necessità possa ricevere aiuto umanitario. Ad Assad, l’indebolimento dei suoi oppositori conviene, perciò non ha nessun interesse a facilitare l’arrivo dell’aiuto internazionale nei territori ribelli. Le ragioni umanitarie, che dovrebbero assumere la priorità di fronte a quelle strategiche, sono inesistenti nella logica del dittatore. A dimostrazione di ciò il fatto che poche ore dopo le scosse del 6 febbraio Bashar al-Assad abbia deciso di bombardare Marea, una città contesa con i curdi e colpita dal terremoto a nord di Aleppo.

L’ONU ha inoltre denunciato i tentativi di Assad di prendere il controllo della distribuzione degli aiuti. L’obiettivo del dittatore, isolato da anni, è quello di affermarsi come unico interlocutore della comunità internazionale fingendo che la Siria, divisa e martoriata da anni, sia un paese unito sotto il suo controllo. Damasco chiede alla comunità internazionale di consegnare gli aiuti alle forze governative, oppure pone l’approvazione del governo come condizione necessaria per le attività di soccorso. Tuttavia delegare la distribuzione degli aiuti a Damasco ed aspettarsi che questa sia equa e raggiunga tutte le popolazioni che ne hanno bisogno, appare irrealistico. Secondo molte organizzazioni internazionali, quegli aiuti, se lasciati ad Assad, non raggiungerebbero mai Idlib, per esempio, città in cui i curdi stanno ancora combattendo le forze jihadiste e tra le più colpite dal terremoto.

Così, quello che dovrebbe essere uno sforzo di solidarietà, concertato al fine di rispondere a una delle peggiori crisi umanitarie degli ultimi anni, in Siria diventa un braccio di ferro in cui un dittatore precario mostra i muscoli perseguendo i suoi interessi strategici.  

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Francesca Campanini

Classe 1999. Bresciana di nascita e padovana d'adozione. Tra la passione per la filosofia da un lato e quella per la politica internazionale dall'altro, ci infilo in mezzo, quando si può, l'aspirazione a viaggiare e a non stare ferma mai.

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