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Formisano

Una strana e terribile bellezza

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10 minuti di lettura

Lunghi capelli che si intuiscono color del miele, raccolti in una treccia stretta, lo sguardo perso altrove, tratti fermi sostenuti da una tecnica impeccabile, sprezzante e nitida che pochi oggi – nell’epoca dell’approssimazione e dell’opera d’arte come ambiguo mezzo di ricatto, alieno dalla qualità per farsi spesso strumento ideologico e meschino – possono vantare. Un corpo adagiato nel nulla che pare fluttuare nell’assenza di materia, tagliato dall’inquadratura che ferma la scena nell’equilibrio malfermo dell’impaginazione asimmetrica: una strana e terribile bellezza.

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Erotismo, viscere e morte nei disegni e nelle incisioni di Valentina Formisano

Così si presenta Valentina Formisano nell’autoritratto inciso all’acquaforte che apre questa nota sul suo lavoro. Non deve stupire se la sconcertante abilità tecnica, che sarebbe potuta sfociare in una sterile accademia, si sia mutata in una personale e gravida interpretazione del disegno, considerando quali maestri la abbiano coltivata: due artisti di immenso spessore, come sono l’incisore Andrea Lelario, eccelso esploratore degli spazi siderali che si annidano nel nostro quotidiano e l’inquieto e sublime xilografo Francesco Parisi (del quale è stata anche per un breve tempo assistente all’Accademia di belle arti di Macerata, città che la ha accolta dopo aver lasciata la Campania).

Formisano

Disegno come traccia per descrivere il corpo che si frantuma; disegno per segnare il corpo e disegno che diventa carne e ne prende insieme le distanze. Perché il disegno, il bianco e nero, per Formisano non sono un mezzo ma il fine della ricerca, nella convinzione dell’autonomia estetica della produzione grafica. E se vogliamo usare un termine che possa comprendere tutto il lavoro della giovane artista possiamo certamente citare il neologismo coniato da Max Klinger nel suo trattato Malerei und Zeichnung (Pittura e Disegno) e cioè quel Griffelkunst (arte dello stilo) che intendeva raggruppare in una unica disciplina, disegno, grafica d’arte e sistemi di riproduzione. Abolendo l’uso del colore si poteva emancipare l’esecutore dal rispetto della realtà.

Non è casuale citare proprio Klinger, interprete di una incisione mitteleuropea, nordica e popolata – uso le parole di Emanuele Bardazzi«di fantasmi, angosce e tormenti, ma al contempo» protesa «ai vagheggiamenti ideali di bellezza» (Incubi Nordici e miti mediterranei, Firenze 2014, p.27), a cui Formisano innegabilmente si rifà per affinità stilistica e sentire.

La mimesi del sesso

Di fronte a una rappresentazione così trasparente, di una intimità che la società sembra voler occultare, non si hanno i mezzi sostitutivi per giudicare, se non attraverso il filtro ossessivo dei media che ci riversano quantità di immagini distoniche atte a trasformano il sesso in una mimesi. Nei nudi di Formisano l’erotismo, spinto talvolta fino a una pornografia estetizzante, induce a una attenta riflessione in merito alle possibilità ancora date al mezzo espressivo.

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Il piacere narcisistico della matita sembra ricalcare una formula reificatrice dell’orgasmo, rappresentato senza ipocrisie, per mezzo di una cruda vetrina di ciò che si compie più che in una sua idealizzazione. Manca totalmente, in questa visione lucida, la paura. O forse è proprio il coraggio di vincerla, il desiderio di scendere dentro di sé, nell’abisso più terribile che si conosca a ben vedere, l’unico di cui si sa tutto e insieme ci si nega la conoscenza, la chiave di lettura per questo disegno così scabro e fertile. Una matita durissima che incide la carta non diversamente da come l’acido potrebbe incidere una matrice preparata per l’acquaforte o una punta al carbonio la superficie specchiante di una lastrina di rame. Perché Formisano incide sempre, anche quando disegna.

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Nel graffiare la matrice non si possono fare errori: solo scelte, private della facilità del pentimento, virate in un segno senza ripensamenti che indaga la memoria, che cerca di annotare per non dimenticare quando la storia è divenuta la realtà più sconvolgente possibile. Se spesso nell’incisione calcografica gli artisti ricercano il nero, la profondità dell’inchiostro, Formisano al contrario resta alla superficie: è la luce che racconta le forme. Luce come chiarezza e trasparenza che il nitore delle tavole esalta in una indubbia e impressionante pratica. Un disegno giocato tutto su tratteggi finissimi, linee secche e spigolose talvolta, fluide e libere altre, materia che si fa densa per il persistere del segno o diventa rada per il suo dileguarsi. Su tutto si impone il bianco abbacinante del foglio di carta che domina – nei rapporti di finito/non finito, sul quale giocano spesso le composizioni – l’impianto visivo.

L’autoritratto

Anche l’attenzione all’autoritratto come diario, un autoritratto che è spietata e gelida rappresentazione realistica di sé, esplicato attraverso una lucida analisi delle più minute imperfezioni, ostentate quali pattern decorativi e tormentato tra autocompiacimento estetico ed espressione del subconscio, va letta in chiave dualistica. Da un lato il mondo di Valentina non contempla fedi, ragioni politiche: l’agire non è un obbligo ma solo un moto del desiderio; dall’altro il silenzio e la solitudine, che spesso fanno paura, vengono inseguiti nel tentativo di acuire il male. Se si cerca di dimenticare per convincersi che il male non esista, in Valentina Formisano manca totalmente questo sgomento di vedersi e anzi è proprio l’entrare profondamente dentro di sé che si manifesta.

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L’anatomia umana

L’anatomia umana, quella intima delle viscere, diviene soggetto di una serie di disegni e calcografie che interpretano con grande realismo la forma degli organi interni, il reticolato del istema linfatico e venoso. Fino all’impressionante autoritratto – di nuovo, un autoritratto – con il ventre aperto, dove intestino, stomaco e polmoni si mutano in fiori alieni, in mostri senza volontà, mentre è evidente nel volto appena accennato, ancora una volta, il deliquio, il piacere. Quasi che il corpo esploso, come in una tavola di anatomia medica, provasse piacere nel proprio disgregarsi. La morte è vista attraverso i suoi istanti e sempre pare aleggiare nelle rappresentazioni quasi sacre, talvolta addirittura liturgiche, nel gioco di corrispondenze tra incanto dell’oggetto e orrore che esso nasconde implicitamente.

Formisano, all’interno di un suo personale inno alla vita, sceglie di frantumarla in istanti apogeici e insieme antieroici, formulando una teoria dell’immortalità personale e atea. Una teoria che sceglie dolore e piacere come stimoli – l’uno rifuggito, l’altro ricercato con il medesimo e opposto istinto – fino a teorizzare l’impossibilità di accettazione della propria morte. Valentina non ci narra una vicenda con un inizio e la sua fine ma ferma delle istantanee senza tempo, piene di simboli e corrispondenze che possiamo intuire solo se abbiamo voglia di guardare.

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Reiterato all’infinito nei suoi taccuini – dove cani infernali si alternano a scene di masturbazione, volti, fantasmi, ad appunti futili del quotidiano, a carcasse putrefatte di uccelli morti, a fiori e vegetali che paiono organismi del mondo animale, membra che gemmano e ossa scarnificate, tutti messi impietosamente sullo stesso piano, disegnati con la medesima inclemenza e attenzione, resti indesiderabili  dello scorrere del tempo – è il memento mori: ché se suona una campana a morto, non ci si ponga troppe domande, la campana suona per tutti noi.

Edoardo Fontana

 

Redazione

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