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Vita, amore e impegno civile: la poesia di Mario Benedetti in «Difesa dell’allegria»

4 minuti di lettura

Mario Benedetti è arrivato da noi, in Italia, con un colpevole ritardo. Le sue doti di cantore del tempo e dei gradi temi della vita sono state a lungo soffocate dall’incredibile saturazione di autori latinoamericani che ha caratterizzato buona parte degli anni ’80 e ’90. Capace di passare con naturalezza dalla prosa alla poesia, quest’autore nato a Montevideo ma di lontane origini umbre ha saputo dar voce agli ultimi e ai torturati, raccontare i drammi del suo tempo e quello che la storia non riesce a cancellare senza mancare mai, con incredibile leggerezza, di indagare le gioie del quotidiano, le piccole grandi conquiste della vita. La sua storia è quella di un combattente, intellettuale attivo e controcorrente pronto a remare sempre dalla parte dei giusti. Dirigente di primo piano del Movimento 26 marzo, il braccio politico della guerriglia dei Tupamaros, dopo il colpo di Stato del 1973 dovette lasciare l’Uruguay e, esiliato prima a Buenos Aires poi a Parigi, Cuba e Madrid, attraversò la storia col passo rapido di un «guastafeste», pronto a godersi l’impegno civile che accompagnò sempre la sua attività letteraria. Noto in Spagna anche grazie all’adattamento di molti suoi versi in musica, la riscoperta di Benedetti in Italia si deve all’impegno di Francesco Luti che, per la prima volta, ha riunito in un unico volume, Difesa dell’allegria, tutti i componimenti del grande uruguagio.

Mario Benedetti
Mario Benedetti

Quello di Mario Benedetti non è realismo magico o folklorico, c’è poco di Gabriel Garcìa Marquez nelle pagine dei tuoi testi, fra le righe dei componimenti. L’America Latina benedettiana è paura e sudore, è Paese di poveri, di gente comune con le sue storie e la sua musica, è l’America Latina delle dittature, dei desaparecidos. Eppure c’è amore in tutto questo, affetto come motore del mondo, quello che gli fa dire: «uno poi inventa l’amore, ma per me l’amore, l’amicizia, tutto ciò che riguarda la relazione tra uomini e donne, o amici, è stata la cosa più stimolante che mi sia accaduta». Di lui si ricorda la passione per la moglie Luz, ma anche e soprattutto il forte legame che era riuscito a creare con il pubblico giovane, che durante le conferenze lo ascoltava estasiato. Un tale calore dovrà pur avere una ragione; ebbene, solo dopo aver letto i suoi componimenti si può realmente comprendere il segreto del suo successo, il meccanismo essenziale che regola l’affezione dei “benedettiani”. Nelle poesie egli  parla da un tavolo di un bar, da una piazza assolata di un Sud America sperduto, o dietro la sua macchina da scrivere, dove il tempo che scorre è segnato dal lento succedersi delle lancette. È la semplicità a rendere la sua voce semplice e diretta, quella che tutti riescono a sentire nelle proprie corde. Durante l’esilio, a chilometri di distanza, Benedetti ha continuato a comunicare e, dietro quel sorriso burlone, ha saputo far fronte alle tante ingiustizie subite, trasfigurandole su carta come ricordi di un tempo lontano, pezzi di cuore lasciati a casa in attesa di un ritorno.

©Wong Kar-Wai
©Wong Kar-Wai

È a Cuba che scrive le bellissime liriche de La casa y el ladrillo (La casa e il mattone), le quali recano la stupenda dedica «a coloro che son fuori e a coloro che sono dentro», gli uruguagi vicini e lontani che possono comunicare con il cuore:

per questo quando tornerò
e prima o poi sarà
nella mia terra dalla mia gente e al mio cielo
magari il mattone che a mio rischio portai
per mostrare al mondo come era la mia casa
possa durare come le mie dure devozioni
alle mie patrie supplenti compagne
possa vivere come un pezzo della mia vita
possa rimanere come il mattone in un’altra casa.

Salvador Allende
Salvador Allende

In Viento del exilio (Vento dell’esilio) ci parla di Salvador Allende, cui dedica versi struggenti: «per ammazzare l’uomo della pace / per colpire la sua fronte libera da incubi / dovettero convertirsi in incubo… / e ammazzare di più per continuare a ammazzare… e ammazzare e ammazzare di più per continuare a ammazzare». La storia, quella che non può avere la S maiuscola perché genera orrore e sofferenza, è espressa nella banalità del male di «un paese che non sogna», di «una città senza palpebre», che tuttavia reca in sé l’unica possibile Nozione di patria, che è «quest’urgenza di dire Noi / […] / questo ritorno al proprio sconcerto».

©Steve McCurry
©Steve McCurry

La figura caratteristica della poesia di Benedetti è la ripetizione anaforica, la quale all’inizio e alla fine di ogni strofa suggella il componimento come ballata popolare, cogliendo in un refrain ripetuto la grande bellezza di ogni parola. Ne Un Padrenuestro latinoamericano, l’anafora Padre nostro fa sì che possa svilupparsi una logica paradossale, in cui ogni frase della preghiera viene rivista con esiti toccanti per quanto riguarda il pane quotidiano, i debiti e i debitori:

è chiaro che non sono sicuro se mi piace il modo / che la tua volontà sceglie per compiersi / […] / lo dico soprattutto pensando al nostro pane/ quotidiano e d’ogni pezzettino di giorno/ ieri ce lo togliesti / daccelo oggi / o almeno dacci il diritto di darcelo il nostro pane / non solo quello che era simbolo di Qualcosa / ma anche quello di mollica e crosta.

Eppure la storia tocca il singolo, e l’amore trionfa sotto le bombe, contro le sparizioni, in barba ai regimi; in Lovers go home un uomo prende coscienza del proprio sentimento ed ecco allora che «per la prima volta / avrò la forza / per costruire con te/ un’amicizia talmente buona/ che dal vicino/ territorio dell’amore / così disperato/ cominceranno a guardarci/ con invidia / e finiranno per organizzare/ escursioni/ per venirci a domandare/ come abbiamo fatto».

Parlando con Luti, Mario Benedetti confessò di scrivere tutto a macchina «tranne la poesia, quella la scrivo a mano». E non è difficile immaginarlo su un tavolo grezzo, con quel sorriso bonario e una penna in mano: «[…] Potresti avvicinarti a sorpresa / e dirmi “Come va?” e resteremmo / io con il segno rosso delle tue labbra / tu con l’inchiostro blu della mia penna».

 ©Alex Webb, Nuevo Laredo, Messico, 1996

©Alex Webb, Nuevo Laredo, Messico, 1996

 


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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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