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«Vivere vicino ai tigli»: la rivoluzione corale del collettivo AJAR

10 minuti di lettura

Tutto nasce nel 2014, quando l’AJAR – Associazione di giovani autori e autrici romandi e romande – partecipa al festival Québec en toutes lettres. L’idea del collettivo è quella di raccontare con una mostra il grandioso successo ottenuto dal libro inedito di Esther Montandon. Ma, in realtà, la Montandon non è mai esistita: è semplicemente un’invenzione di questo gruppo di scrittori. Al fine che la simulazione si svolga nel migliore dei modi, segue la redazione di saggi critici sulla vita e le opere dell’autrice con annessa un’esaustiva lista di opere e contributi – per non accennare alla pagina Wikipedia. Eppure, la finzione diventa sempre più concreta, fino a quando l’AJAR decide di scrivere integralmente l’opera della loro Esther Montandon. Il collettivo è determinato, tanto che una sera d’estate si trova in campagna per scrivere in una sola notte quello che sarà Vivere vicino ai tigli (SEF, 2021).

L’impulso è semplice. Vincent Köning, il depositario degli archivi della scrittrice, un giorno si imbatte per caso in una cartella etichettata “fatture”. Al suo interno, però, trova anche una serie di fogli sparsi scritti dalla Montandon. Il contenuto è sconvolgente. Come ricorda Köning, tra il secondo libro della scrittrice – Il braccio di ferro – e il terzo – Tre grandi scimmie – intercorrono più di dieci anni. Cosa succede, dunque, tra il 1959 e il 1970?

È risaputo che il 3 aprile del 1960 la Montandon perde la figlia Louise di appena quattro anni a causa di un incidente. Ne consegue una crisi, anche da un punto di vista artistico. Di questa tragedia non si trova riscontro nei suoi libri successivi che si concentrano maggiormente su una critica della società svizzera e di ricordi d’infanzia della donna. Si spiega, dunque, l’entusiasmo dell’autore nel trovare nel 2013 alcuni testi inediti riguardante proprio quel periodo. Come anticipato, tuttavia, i fogli non seguono un ordine preciso. Come ricorda Paola Codazzi nella prefazione: «Esther è talmente reale che la domanda che si pone il curatore appare più che legittima: sarebbe stata contenta di vedere queste pagine pubblicate, e in questo ordine, con questa forma?». Ovviamente dobbiamo pensare che il lavoro dell’AJAR non finisce in quella famigerata notte, ma ha una gestazione più lenta e ragionata che porta Esther a esistere e diventare davvero un’autrice di culto che nel 1960 ha dovuto fronteggiare la perdita della figlia.

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Coerentemente al progetto che ha ispirato il libro, la traduzione proposta – coordinata da Enrico Monti – è corale: infatti, vede il coinvolgimento di più studenti dell’Università di Bologna del corso di laurea in Culture letterarie europee. Un lavoro attento che – nonostante le complicazioni dettate dalla pandemia da Covid-19 – è riuscito a raggiungere un risultato particolarmente omogeneo e godibile. Un’opera, dunque, che non è solo pregevole per il suo contenuto, ma anche per la modalità in cui è stata trasposta e resa nota in Italia.

Per ritornare all’opera, Vivere vicino ai tigli è stato probabilmente scritto – per riprendere le parole di Köning – «tra l’inizio del 1956 (Louise è nata il 4 ottobre) e i due anni successivi alla sua morte». Diviso in ben 63 frammenti, ognuno di essi varia di lunghezza: andiamo dalle tre parole del 20, alle due pagine – ad esempio – del 58. Si tratta, comunque, di fotogrammi che spesso raffigurano solo un determinato episodio. Eventi che, però, non sempre si esauriscono in un frammento: infatti alcuni di essi si protraggono in quelli successivi o vengono ripresi più volte nel corso della narrazione.

Un esperimento letterario, quello dell’AJAR, che trova illustri esempi nella letteratura. Per citarne uno, si pensi al celeberrimo Fuoco pallido di Vladimir Nabokov, in cui l’autore scrive il poemetto omonimo dandone la paternità al poeta John Shade. D’altra parte, a seguito di una serie di peripezie, la curatela dell’opera – con relativi commenti – è affidata all’estroso collega Charles Kinbote. In particolare, in questo romanzo – da alcuni considerato il capolavoro di Nabokov – viene anche descritta in maniera ironica la propensione alle sperimentazioni letterarie: «Le parole si possono bardare come fossero pulci ammaestrate per poi usarle alla guida di altre pulci». Tralasciando il contenuto critico della sentenza, in Vivere vicino ai tigli gli autori danno vita a un proprio esercito di parole, di avvenimenti, che si susseguono in maniera tanto febbrile quanto controllata. Il dolore della Montandon è incasellato con cura in ogni riga; il suo estraniamento dal mondo, le frequenti crisi e prese di coscienza sono il vero e proprio motore della trama. Incapace di trovare conforto nel marito Jacques – un uomo buono, ma incapace di sorreggere la moglie –, Esther allieva il proprio dolore nel ricordo della figlia in tutte le sue sfumature.

copertina vivere vicino ai tigli

I primi frammenti sono dedicati proprio alla gravidanza, in cui Esther scrive: «Mi è piaciuto essere incinta, perché, per la prima volta, avevo il diritto di essere vulnerabile. E nient’altro aveva più alcuna importanza. C’erano solo il mio corpo e il suo, che cresceva in silenzio». Una prosa estremamente semplice, asciutta, priva di qualsiasi manierismo che arriva direttamente alla situazione nevralgica. Scritti pensati come una sorta di diario non contemplato per la pubblicazione. Una confessione istantanea che disvela Esther in tutta la sua fragilità e debolezza. Poi, arriva la nascita e con essa tutta una serie di episodi più o meno significativi che caratterizzano la vita di Louise. L’apprensione e il timore di Esther durante quei frammenti sembrano addirittura premonitori. E dopo ancora la morte incidentale, improvvisa, mai descritta nel dettaglio, come se fosse un evento inevitabile di cui si può semplicemente prendere atto. Sicuramente i frammenti dedicati alla vestizione e al funerale sono i momenti più strazianti dell’intera opera.

L’incapacità della scrittrice di reagire diventa una morsa, tanto che nel frammento 26 arriva una lucida riflessione: «La sofferenza è più un’azione che uno stato. Le ore d’insonnia, poi il sonno di piombo fuso sulle palpebre, la prostrazione nel buio, la fame che distrae il dolore, le lacrime che non si sentono più colare: la sofferenza è un coinvolgimento di tutto l’essere e mi sono gettata a capofitto». Oppure al frammento 63 scrive: «Mi muovo nel quotidiano come una libellula che rasenta le acque stagnanti. Resto sulla superficie delle cose per non soffrire, non mi avvicino a niente, come se la lingua delle ranocchie minacciasse di risucchiarmi. Mi accontento di essere irreprensibile». Ma è la stessa autrice ad essere consapevole di non poter «continuare a vivere vicino ai tigli assolati del cimitero».

Il progetto dell’AJAR (acquista), quindi, vive in maniera così singolare e intima tanto da far riflettere sulla potenza d un progetto che fa dell’immedesimazione e dell’umanità i suoi vessilli. E come viene precisato dalla stessa Associazione nella postfazione: «E di fatto [Esther Montandon] esiste. A tal punto che il collettivo avrebbe potuto firmare Vivere vicino ai tigli con il [suo] nome […], per perfezionare l’imbroglio prima della sua pubblicazione. Ma non si tratta più di un imbroglio, non si tratta di una falsificazione che cerca di passare inosservata. L’AJAR avanza allo scoperto».

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Lorenzo Gafforini

Classe 1996. Nel 2020 si laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Brescia. Ha pubblicato otto raccolte di poesie e due racconti.

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