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«Vox Lux», in questo mondo senza luce

La rinascita di Celeste come pop star, dopo essere nata da un colpo di pistola.

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6 minuti di lettura

Giunto alla sua seconda opera, Brady Corbet conferma il suo stile da Film d’art in cerca di una verità. Dopo il sorprendere L’infanzia di un capo torna così a riflettere sulle origini del male, ma lì dove prima guardò al passato tentando di tratteggiare la mente di un fascista ancor prima della sua ascesa, ora, senza mutare stile e domande, guarda al presente.

Preludio

Vox Lux inizia con un preludio, un’introduzione strumentale la cui musica esce dai più letali degli strumenti; una pistola. Brady Corbet decide infatti di fermare lo spettatore sul nascere, mostrando la sparatoria perpetrata da un ragazzino in una classe nel 1999.

È all’«alba del nuovo millennio»  che vediamo così i semi di ciò che verrà, un’efferata violenza che traumatizza una delle bambine sopravvissute, Celeste, marchiandola e segnandola a vita. È lei la figlia di quest’epoca, nata da un proiettile che l’ha spinta con violenza in un’epoca di ceneri e urla, di torri che cadono, di uomini che uccidono, e in cui lei, ancora segnata da un decisivo stress post traumatico, si ritrova a rinascere sotto le forme eccessive e incontrollate di una pop star in continua ascesa.

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Ma non «è nata una star», come direbbero ora Bradley Cooper e Lady Gaga, è nato il 2000; e canta e balla in un tunnel senza luce di una sopravvissuta ad un mondo violento.

vox lux

L’esasperazione del ventunesimo secolo

«Un ritratto del ventunesimo secolo», afferma il sottotitolo di quest’opera criptica. L’epoca moderna dipinta dunque, non fotografata, né filmata. Stesa su una pellicola che mantiene il formato della precedente, un 35mm che ben si sposa con la fotografia scura e priva di respiro, architettata affinché persino la più credibile delle scene, sia essa un caffè al bar o un attentato in spiaggia, sottolinea il terrore che circola nel sangue dell’epoca moderna. 

È dunque un’estetica precisa quella di Brady Corbet, talmente ragionata da rasentare un intellettualismo esasperante, ma che è senza dubbio la cifra di un giovane regista che vuole lasciare solchi profondi quanto le ferite della società che racconta. Ecco allora che ogni tassello cerca un proprio posto, affiancando ad esempio le canzoni originali di Sia, cantautrice australiana qui nei panni anche di produttrice, con la colonna sonora di Scott Walker, compositore statunitense, nel fine e palese tentativo di formulare una pop music dai volumi alti e dai toni gravi, pronta a risuonare come i tamburi di una marcia funebre che però, come negli urli dei fanatici fascisti nel finale de L’infanzia di un capo, cantano tutti.

Stesse domande ma meno risposte

Inutile dire quanto oscura appaia questa realtà narrata. Dipinta appunto da una tavolozza di sfumature nere e sempre più oscure, simili a tal punto al buio della notte da lasciare che il film inizi come se stesse finendo. 

È la fine di tutto, o ci siamo vicini, sembra dirci Vox Lux, che non solo inizia con il più angosciante dei modi, il suono di una pistola, ma che subito dopo lascia scorrere sulle immagini di alcune strade i titoli di coda del film, come se quell’inizio segnasse già la fine; del film, come del resto.

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E su queste e altre grandi e piccole peculiarità visive si potrebbe restare ancora e ancora, ricordando ad esempio come la divisione in due capitoli, Genesi e Rigenesi, non racconti solo l’ascesa di un’artista traumatizzata, ma anche il suo divenire vaso di pandora di una violenza che si riversa in ogni sua parola, in ogni sua canzone. Eppure, nonostante l’encomiabile lavoro attoriale di una Natalie Portman in chiave glam rock ed elettropop, è giusto sottolineare come lungo la visione si sommino i dubbi di un processo al mondo troppo simile al precedente, le cui riflessioni, fondamentalmente basate sulla credenza secondo cui un mondo violento genera e sprofonda nell’oscurità, troncano sul nascere ogni possibile risvolto, narrativo e filosofico.

Dove voglia portare Vox Lux, oltre che in tunnel buio e senza fine, appare così poco chiaro, forse perché da un lato troppo simile all’opera di cui è successore, L’infanzia di un capo, e dall’altro privo della stessa agghiacciante e sorprendente analisi. Più sospeso e inconclusivo dunque, magari per errore o magari perché questa nuova epoca narrata, quasi più spaventosa e certamente più tangibile, non ha ancora concluso il proprio terribile canto.

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Alessandro Cavaggioni

Appassionato di storie e parole. Amo il Cinema, da solo e in compagnia, amo il silenzio dopo una proiezione e la confusione di parole che esplode da lì a poche ore.
Un paio d'anni fa ho plasmato un altro me, "Il Paroliere matto". Una realtà di Caos in cui mi tuffo ogni qual volta io voglia esprimere qualcosa, sempre con più domande che risposte. Uno pseudonimo divenuto anche canale YouTube e pagina instagram.

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