A cinque anni da Il Dittatore, Sacha Baron Cohen torna a raccontare l’America con «Who is America?». Uno show che illustra l’ampio spettro politico e sociale di una nazione che dopo anni riesce ancora a farsi imbrogliare dal comico mutaforma più controverso del nuovo millennio. Ma da Borat (1996) ad ora qualcosa sembra essere cambiato, e lì dove si rideva, oggi, in parte, non si sa più come reagire.
Una tela di maschere per catturare il presente
Scritto, ideato e interpretato da Sacha Baron Cohen, «Who is America?» è un programma televisivo affascinante e parzialmente avvincente. Nell’insieme dei suoi sette episodi ci troviamo condotti in un gioco di maschere di cui Cohen è il protagonista e regista, riuscendo a manipolare minuto dopo minuto «poveri» politici, attori e uomini dell’America più nota alle cronache, incapaci di distinguere il comico sotto la maschera che come in uno scherzi a parte più elegante e politico li porta a credere di poter dire ogni cosa. Si assiste così al montaggio serrato e agghiacciante di figure pubbliche che cascando nella trappola del comico rivelano pensieri e progetti sino a quel momento impensabili, senza capire mai che Billy Wayne Ruddick Jr., un teorico della cospirazione di estrema destra che pubblica le sue indagini sul suo sito web TRUTHBRARY.org, o Dr. Nira Cain-N’Degeocello, un attivista liberale che desidera “guarire il divario” in America intervistando cittadini sostenitori di Donald J. Trump, e molti altri sono maschere ideate e mosse dallo stesso genio. L’arte mutaforma di Cohen torna così ad essere il centro della sua personale e sconvolgente narrazione del paese, riuscendo con abilità a convincere tanto gli intervistati quanto gli spettatori, talmente assuefatti dalla perfezione dei personaggi proposti e interpretati da non capire dove inizi la presa in giro ed inizi la realtà. Un meccanismo che scatena la risata, porta a riflettere e s’innalza al più vero ed involontario dei talk show.
L’esploratore mutaforma
Cosa o chi sia Sacha Baron Cohen ormai a pochi sembra essere chiaro. Il suo tentativo di concentrare l’attenzione sul portato culturale delle maschere da lui di volta in volta indossate e mimate si è infatti ormai realizzato in uno spossessamento della sua propria identità, tramutata così in idea e luogo di transizione tra le diverse maschere. Sacha Baron Cohen è allora forse la maschera d’America, un individuo multiplo che dissolvendo se stesso mostra il volto di una nazione intera presa a cattivo modello del mondo globalizzato.
Lì dove molti altri attori e presentatori impongono il proprio carattere per intervistare politici e personaggi influenti, magari nel nobile tentativo di sfogliarne una qualche verità, Cohen si tira indietro e lascia avanzare un prodotto dell’immaginazione, un personaggio inventato, che si avvicini all’intervistato accomodandolo a tal punto da farlo parlare nella maniera più vera possibile. Ecco allora che ai fautori della razza bianca Sacha Baron Cohen non si oppone, anzi, con la lentezza dell’esploratore, dell’avventuriero in cerca di nuove specie, si avvicina imitandone l’immaginario, creando un personaggio a loro talmente credibile, sia esso nemico o amico, da renderli spaventosamente sinceri. Finge ad esempio di essere un colonnello dell’antiterrorismo islamico, Erran Morad, e semplicemente parlando con importanti rappresentanti politici americani ne tira fuori i pensieri più indicibili, li conduce, spesso improvvisando, a farsi dare ragione e supporto su follie quali la necessità di armare i bambini, la bellezza delle torture e la corruzione dell’omosessualità. Pare surreale pensare che fingere un personaggio renda più reale chi si interfaccia con esso, ma le continue dimostrazioni portate su schermo da Cohen non sono distorsioni della realtà, bensì esatte inquadrature di questa.
La tragicommedia normalizzata
Eppure c’è un problema. Se nei primi anni 2000 il metodo del comico fece scalpore per l’efficacia con cui i personaggi da lui inventati, come Borat o Ali G, riuscivano a smascherare le malvagità, o stupidità, di un’intera società, ora, dopo l’elezione di Donald J. Trump, presa come punto di partenza anche da «Who is America?» , niente sembra più stupire. Non c’è bisogno di trarre in inganno un politico per farsi ammettere i suoi pensieri nel momento in cui questi, anche i peggiori, vengono già affermati sotto la luce del sole, perché quando un presidente prende in giro le disabilità in un comizio pubblico è ovvio che nessun’altra tragicommedia smascherata riuscirà più ad essere ugualmente scioccante.
Ripensare la satira per ripensare la società
In «Who si America?» dunque non si ride molto, anzi, si osserva impietriti di una conferma di cui già le cronache narrano a sufficienza. Ecco allora che il freno più grande del ritorno di Sacha Baron Cohen non viene da lui stesso, ma dalle realtà che per anni ha narrato, e che ora, forse con qualche sorpresa, ha superato ogni sua immaginazione.
Borat o il generale Aladeen potevano essere le chiavi parodistiche per capire il reale, ma adesso, dopo che il limite è stato ben più che superato, non possono fare altro che perdersi in una folla di personaggi decisamente più grotteschi di loro.
E allora anche la più efficace delle satire deve reinventarsi. Perché è vero che l’arte è sempre un passo in avanti, ma quando è la società a tirare indietro inizia a essere necessario ridefinire un racconto, un modo, per mostrare e smascherare realtà sempre più meschine.
Questo forse il pregio più grande di «Who is America?», mostrarci che molto probabilmente non è più abbastanza.
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