Quest’anno si sono festeggiati sia l’anniversario del primo voto alle donne (elezioni amministrative del 10 marzo 1946) sia quello della Repubblica (referendum del 2 giugno 1946): un doppio “compleanno” di settant’anni.
Ripercorrendo velocemente la storia del suffragio femminile, possiamo e dobbiamo partire dal 1789, l’anno della Rivoluzione francese, quando il Cahier des doléances des femmes (letteralmente: Quaderno delle lamentele delle donne) rivendica per la prima volta il formale riconoscimento dei diritti alle donne. Nel 1792 l’inglese Mary Wollstonecraft pubblicò A Vindication of the Rights of Women (Una rivendicazione dei diritti delle donne), protestando vigorosamente contro le condizioni di ingiustificata inferiorità in cui le donne continuavano ad essere tenute. Ed è sempre in Inghilterra che nell’Ottocento nacque e si diffuse il movimento delle suffragettes, cioè delle donne che chiedevano il suffragio (il diritto di voto) femminile: solo alla fine di quel secolo (1893 in Nuova Zelanda, colonia britannica) e agli inizi del prossimo (1906 in Finlandia) quelle idee cominceranno a diventare realtà.
In Italia nel 1919 papa Benedetto XV parlò pubblicamente a favore del voto alle donne (una volta tanto, un’ingerenza positiva della Chiesa nella politica!); nello stesso anno, il fascismo appena nato prendeva posizione contro la morale borghese dell’epoca, sostenendo sia il divorzio sia il suffragio femminile. Ancora nel 1923, nel discorso del 9 maggio tenuto ad apertura del IX Convegno Internazionale pro suffragio femminile svoltosi a Roma, Benito Mussolini esprimeva il suo convinto sostegno, dichiarando:
«Io penso che la concessione del voto alle donne in un primo tempo nelle elezioni amministrative in un secondo tempo nelle elezioni politiche non avrà conseguenze catastrofiche come opinano alcuni misoneisti, ma avrà con tutta probabilità conseguenze benefiche perché la donna porterà nell’esercizio di questi vivaci diritti le sue qualità fondamentali di misura, equilibrio e saggezza».
Concretamente, però, si fece poco o nulla, anzi non è neppure il caso di dire che anche il voto maschile durante il fascismo perse qualunque valore. Fu col Decreto Luogotenenziale n. 23 del 1 febbraio 1945 che venne riconosciuto il diritto di voto alle donne, ma solo l’elettorato attivo (avrebbero potuto, cioè, votare, ma non essere elette) e con esclusione delle prostitute schedate che operavano fuori delle “case di tolleranza” (abolite nel 1958 per tenace volontà di una donna, la senatrice Lina Merlin).
La convinta e costante lotta delle associazioni femminili (Udi, cioè Unione donne italiane – oggi rinominata Unione donne in Italia, la cui data di nascita ufficiale è il 1 ottobre 1945, ma in realtà già operante nella Resistenza prima di tale data – e Cif, Centro italiano femminile) riuscì ad ottenere anche l’elettorato passivo (Decreto n. 74 del 10 marzo 1946), tanto che alle elezioni per l’Assemblea Costituente – svoltesi il 2 giugno 1946 contestualmente al referendum istituzionale in cui il popolo italiano fu chiamato a scegliere tra monarchia e repubblica – furono 21 le donne ad essere votate su 535 uomini: 5 di loro (Maria Federici e Angela Gotelli della Dc; Nilde Iotti e Teresa Noce del Pci; Angelina Merlin del Psi) fecero parte della Commissione dei 75 incaricata di redigere la nostra Costituzione, proprio quella che quest’anno – quando si dice la coincidenza! – è stata anch’essa oggetto di referendum istituzionale su una proposta di riforma costituzionale che ha avuto come prima firmataria una donna, Maria Elena Boschi.
Oggi, il Parlamento eletto nel febbraio 2013 è composto da 198 deputate (il 31,4% degli onorevoli) e da 86 senatrici (il 27,3% dei senatori): dati significativamente molto migliori rispetto alla precedente legislatura, quando la Camera aveva solo il 21% di deputate e il Senato solo il 18,7% di senatrici.
Bilancio di questi settant’anni? Dalle 21 donne elette nel 1946 alle 284 nel 2013. Il numero è cresciuto in modo significativo. Si può fare certamente di più e meglio. Ma è comunque un risultato positivo.
Venendo alla seconda ricorrenza, tantissimo è stato scritto sul referendum istituzionale di settant’anni fa, quando la forma repubblicana fu votata dal 54,3% dei quasi 25 milioni di cittadini italiani di ambo i sessi di contro al 45,7% dei favorevoli alla monarchia, con una differenziazione geografica molto netta tra il Nord repubblicano (66,2% voti a favore) e il Sud monarchico (63,8% voti a favore).
Festeggiare il “compleanno” della Repubblica (70 anni sono un traguardo significativo come età per un essere umano, ma per la storia di un Paese?) significa ricordare che in quest’arco temporale abbiamo avuto 12 Presidenti e 64 Governi. Il primo dato è accettabile; il secondo è, francamente, scandaloso: significa che nella nostra storia repubblicana i governi sono durati (durano?) in media poco più di un anno.
Se andiamo ad analizzare più nel dettaglio e parliamo di “giorni effettivi di governo”, si passa dai 1409 giorni del secondo governo Berlusconi (11 giugno 2001 – 20 aprile 2005) ai 12 giorni (!!) del primo governo Fanfani (18 gennaio 1954 – 30 gennaio 1954). Cioè, il governo che è durato di più è rimasto in carica meno di quattro anni. Quanto all’altro caso, va detto che lo si può mettere a confronto col primo governo Andreotti, che rimase formalmente in carica dal 17 febbraio 1972 al 26 giugno 1972, per un totale di 120 giorni effettivi, ma che, non avendo ottenuto la fiducia, si dimise dopo soli 9 giorni in cui esercitò i pieni poteri e durò per guidare il Paese alle elezioni anticipate che posero termine alla V Legislatura: quindi abbiamo avuto governi di 9 e di 12 giorni, una durata quanto mai effimera e davvero inaccettabile per un paese civile.
È ormai convenzione, poi, parlare di Prima Repubblica (1948-1994), di Seconda Repubblica (dopo il 1994), ma non ci è ancora del tutto chiaro se siamo ancora in questa o se è già legittimo parlare di Terza Repubblica: lasciamo il dibattito a storici ed opinionisti.
Per questa seconda ricorrenza tracciare un bilancio è sconfortante: certamente chi nel 1946 ha votato per la Repubblica non intendeva votare anche per una tale, incredibile precarietà, che non ha confronti con nessun altro Paese europeo.
Giusto festeggiare entrambi i “compleanni”, ci mancherebbe: ma mentre per il primo ci sono motivi di orgoglio e di speranza per un futuro ancora migliore, per il secondo non si intravvedono all’orizzonte correttivi e rimedi. Saremo forse anche nella Terza Repubblica, ma non è finita la stagione dei pop-up governments, per dirla all’inglese: cioè, dei “governi comparsa”.
Avere la Repubblica è stata una grande conquista: mantenerla in modo democratico, senza indulgere né a suggestioni oligarchiche o personalistiche né a demagogismi e populismi, e governarla garantendo periodi dignitosi di durata al potere esecutivo dovrebbe essere l’imperativo categorico di tutti coloro, uomini e donne, che intendono impegnarsi in politica, sia come elettori che come eletti.
Stefano Casarino