L’idea che vi sia un vettore d’influenza fra le conformazioni geografiche di un certo territorio e le genti, le società, le culture che in esso si sviluppano anima la modernità filosofica sin dalla sua origine. Moderno è ciò che discende dal regno dei cieli – eterno, sovratemporale, sempre uguale a se stesso – per entrare nel mondo terreno del mutamento, in cui la legge che determina la vita degli uomini è quella della trasformazione, della storia. L’immateriale divino s’infrange sulla concretezza dei rilievi umani e naturali. La decisione politica viene progressivamente a sostituire il vaticinio profetico, l’occhio che scruta il futuro si rivolge al presente, non più alla fine.
Ma il presente è anzitutto incardinato su questo spazio che ora si rende manipolabile da chi vi abita: la Terra. E la Terra è fatta di rocce, vulcani, foreste, grotte, abissi, laghi, fiumi; ma anche di spazi entro i quali lo sguardo si perde e non può abbracciare, oceani, continenti. La Terra è fatta di climi che variano e che legittimano il raccolto o flagellano chi lo tenta, di propaggini abbandonate, di crepe create dal sole che batte. E anche di isole.
Che pensiero produce un’isola, il divenire-isola di un pensiero? Dobbiamo arrischiarci a fotografare le condizioni che pur influenzando la formazione di un pensiero, tuttavia non la determinano in maniera univoca, ma piuttosto ne delimitano i contorni, le conferiscono uno stile. Il territorio fornisce un piano d’immanenza sul quale, deterritorializzato, emerge come un fumo il pensiero. Chiamiamo “insulare” il pensiero o la filosofia forgiata sull’onda di questa influenza.
Come si caratterizza il pensiero-insulare?