Ci eravamo lasciati qualche giorno fa con la biografia di Han van Meegeren nel momento in cui inizia il suo grandioso progetto di vendetta sul sistema dell’arte che l’aveva (a suo dire) arbitrariamente escluso. Ecco quindi l’inizio della fine e del successo di uno dei più grandi falsari di tutti i tempi.
Il creatore del periodo italiano di Vermeer
Il dilemma, il rischio e la chiave del successo dell’esperimento convergevano tutti nella scelta del soggetto. Van Meegeren non avrebbe riprodotto un semplice quadro alla maniera di Vermeer, né si sarebbe limitato alla “banale” copia di un capolavoro del maestro. Han van Meegeren era un artista e tale si sentiva e voleva essere considerato, anche se con poca fortuna. Avrebbe eguagliato, se non superato, il pittore fiammingo, affermando così il proprio talento indiscusso agli occhi del mondo, vedendosi finalmente riconosciuti i propri meriti e il posto tra i grandi dell’arte. Tuttavia, nonostante con i primi falsi abbia tentato, seppur senza troppa foga, di instillare il dubbio che si trattasse di opere contraffatte, il successo e i guadagni straordinari che tali dipinti portarono fecero presto cambiare idea al falsario, che decise di rimanere silente ancora per un po’, godersi una vita sfrenata e lussuosa, portando avanti la sua produzione e il commercio dei Vermeer giovanili.
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Il cosiddetto periodo italiano, o narrativo, del maestro di Delft era basato su quattro quadri, venuti alla luce quasi dal nulla nell’arco di due secoli, dalla metà del Settecento allo scoppio della Seconda guerra mondiale, fiduciosamente attribuiti a Johannes Vermeer, ma costantemente al centro di discussioni tra esperti. Van Meegeren seppe servirsi di una grande debolezza umana: il desiderio di aver ragione e di autoaffermazione. Realizzò la quinta opera perduta di questo Vermeer sconosciuto, il Cristo in Emmaus; e poi la sesta, la settima, e molte ancora, tutte con un successo differente, ma comunque autenticate come Vermeer. La più celebrata, famosa, considerata «il capolavoro – di Johannes Vermeer di Delft, […] una delle sue opere più imponenti» fu Cristo e l’adultera. Il soggetto dei quadri era complesso e tradizionale per la storia della pittura, ma estremamente innovativo se considerato nell’ottica dell’operato del maestro fiammingo. Van Meegeren si distacca in modo straordinariamente efficace dallo stile e dalle tematiche di Vermeer, riuscendo comunque a rimanere fedele e credibile.
Vermeer affascinava perché era «uno dei pittori più enigmatici, ambigui ed ermetici dell’intera storia dell’arte», mentre nelle scene bibliche dipinte dal falsario scompare, forse inevitabilmente, quell’alone mistico e misterioso tanto caratteristico. Le composizioni meegeriane sono austere, semplici, schematiche. Non potendo, per ovvie ragioni, lavorare con modelli dal vivo, van Meegeren prese ispirazione per i suoi personaggi da diversi dipinti attribuiti a Vermeer, incoraggiando ulteriormente i critici a riconoscere anche questi esemplari come autografi del pittore di Delft. Questo elemento, sebbene possa a una prima analisi avvalorare l’accusa di mera e semplice falsificazione nei confronti di van Meegeren, era in realtà una pratica diffusa, soprattutto nelle botteghe, in cui uno stesso modello veniva ritratto più volte per differenti dipinti, sia dal vero che riprendendo tele precedenti.
Scelta cruciale fu anche quella della firma: andava apposta oppure no? Certamente, se la firma sui falsi non ci fosse stata, gli esperti avrebbero trovato la scoperta dei Vermeer perduti ancora più affascinante; ma, allo stesso tempo, vista la profonda diversità dei quadri rispetto all’opera del maestro fiammingo, il rischio che non venissero ricondotti a lui sarebbe risultato maggiore. Una volta deciso, per sicurezza, di firmare le opere, non rimase che scegliere come, dato il vasto catalogo di autografi di Vermeer. Van Meegeren optò per una sigla che fosse il più possibile vicina alle proprie iniziali (I.V. Meer), così da facilitare il tratto fluido e deciso in fase di scrittura.
La fine della carriera e l’inizio della popolarità di van Meegeren
Gli ultimi falsi, tuttavia, rivelano in maniera lampante il pieno stile di van Meegeren. Il falsario, insomma, «smise di dipingere alla maniera di Vermeer e finì per dipingere alla maniera di se stesso». Ciò potrebbe essere riconducibile a motivazioni differenti: forse si era aperto nell’animo di van Meegeren il desiderio, seppur latente e inconscio, di uscire allo scoperto; oppure la celebrità acquisita, e la conseguente relativa sicurezza che quei quadri offrivano circa la propria autenticità ai critici, portò l’autore a preoccuparsi meno della fedeltà allo stile vermeeriano, conscio che i dipinti non sarebbero stati sottoposti, con ogni probabilità, a esami specifici di alcun tipo. Si ritrovò dunque, si può dire, a copiare e falsificare se stesso.
Paradossalmente, non la sua bravura bensì il suo declino, la disattenzione, il venir meno del suo talento di falsario gli consentirono di raggiungere l’obiettivo da sempre perseguito, che accompagnava e sorreggeva il suo lavoro: compromettere irrimediabilmente la reputazione, il prestigio degli esperti, di coloro che gli avevano negato l’affermazione artistica e che ora, invece, lodavano i suoi falsi scadenti. La fine della sua carriera coincise con l’inizio dell’ascesa della sua popolarità. Quando il Vermeer acquistato dal gerarca Hermann Göring, Cristo e l’adultera, fu ritrovato, insieme a centinaia di altri capolavori, in una grotta-bunker, la gioia degli esperti fu incontenibile. Ma la sete di vendetta da parte dell’Olanda sull’invasore e usurpatore tedesco era forte e portò presto a indagini approfondite per scoprire come gioielli dell’arte olandesi fossero finiti nelle mani dei nazisti.
Han van Meegeren: collaborazionista o eroe nazionale?
Le ricerche circa il dipinto giovanile del sommo maestro fiammingo terminarono in fretta, con sgomento e orrore di tutti. Proprio un commerciante, un artista fallito olandese, infatti, avrebbe contrattato per la vendita al terribile generale nazista di uno dei pezzi più preziosi del mercato artistico del Paese. Han van Meegeren era un laido collaborazionista e andava punito con la pena di morte. Inizialmente spiazzato e impaurito, il falsario si riprese velocemente e, confessato il suo operare illecito, rivendicando dunque la sua innocenza circa l’accusa di collaborazionismo – lui, in fondo, aveva affidato la vendita di un suo quadro a un commerciante che, a sua insaputa, l’aveva venduto come un Vermeer al gerarca Göring –, iniziò ad apprezzare la notorietà scaturita dalla vicissitudine.
L’opinione pubblica si spaccò tra chi lo riteneva un criminale, ciarlatano e chi, invece, un eroe, il falsario che ingannò i nazisti. Come prova ultima della sua innocenza, gli fu chiesto di realizzare una copia del Cristo a Emmaus; richiesta quantomeno ingenua, dato che qualsiasi abile falsario sarebbe stato in grado di realizzarla senza troppe difficoltà. Han van Meegeren volle invece rivendicare, senza possibilità di dubbio o contestazione da parte degli esperti, il suo essere artista, oltre che abile falsario, e dimostrare come tutte le opere da lui realizzate, autografe o meno, fossero frutto del suo genio artistico, prima ancora che dell’ispirazione all’operato di Vermeer. Per fare ciò dipinse Gesù fra i dottori.
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Inoltre, durante la realizzazione dei dipinti, van Meegeren costruì prove inconfutabili, che gli avrebbero permesso di rivendicare il proprio operato e che avrebbero fatto comprendere al mondo intero che il talento del falsario, soprattutto se artefice di falsi creativi, non esclude quello dell’artista e che in lui, evidentemente, le due anime combaciavano e si combinavano alla perfezione; tanto che nessuno, nemmeno il critico più esperto, sarebbe stato in grado di svelare la truffa, distinguendo quindi un falso da un capolavoro, in quanto, nemmeno in questo caso, uno esclude necessariamente l’altro.
Gli esperti chiamati a dimostrare la veridicità delle dichiarazioni di VM sarebbero stati gli stessi che lui aveva ingannato: avrebbero dovuto giustificare la loro inettitudine e allo stesso tempo esaltare implicitamente la prodigiosa abilità dell’accusato.
L. Guarnieri, La doppia vita di Vermeer, Milano, Mondadori, 2004, p.181
La vendetta di van Meegeren era ultimata e il suo successo alle stelle, sebbene il processo e i risarcimenti impostigli prosciugarono il suo conto in banca. All’inizio del processo, nell’ottobre 1947, l’accusato era già stato ampiamente assolto dall’opinione pubblica e le quotazioni delle sue opere autografe crebbero in maniera esponenziale. Venne condannato, un mese più tardi, a un anno di prigione; ma morì prima, nel dicembre 1947.
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