Contestato, odiato, ripudiato, ma apparentemente inarrestabile e inevitabile, il mercato dell’arte ha rappresentato, e per alcuni rappresenta tutt’oggi, il lato più “volgare” del sistema artistico, quello da nascondere, del quale parlare sottovoce e in privato. L’idea comunemente diffusa, infatti, è che qualcosa di tanto elevato, intellettuale, a tratti spirituale come l’arte non debba e non possa avere a che fare con il mercato, il denaro, che ne svilirebbe e addirittura corromperebbe irrimediabilmente il messaggio. Storicamente, tuttavia, è evidente come il lato materiale, quello appunto della compravendita, e quello invece più strettamente artistico-creativo del mondo dell’arte siano in realtà strettamente legati uno all’altro.
Breve parabola storica del mercato dell’arte
È utile, in tal senso, ripercorrere, seppur brevemente, lo sviluppo di quello che è andato definendosi come mercato artistico.
Si può dire che il mercato dell’arte nasca con l’arte stessa, ben considerando le varie accezioni e sfumature che il concetto di “arte” ha attraversato nel corso dei secoli e dei millenni. Ma come è cambiato il senso che nel tempo è stato dato alla parola arte, così è mutata la figura del compratore, da semplice acquirente a mecenate a collezionista. Quello che oggi viene definito collezionismo, ha origini millenarie. Secondo Erodoto, i primi a organizzare vendite pubbliche di manufatti furono i babilonesi nel 500 a.C.. Esistono poi numerosi esempi di collezioni d’arte risalenti all’Antica Roma, tanto che il termine mecenatismo trova la propria origine nel nome di Caio Cilnio Mecenate, consigliere dell’imperatore Ottaviano Augusto e grande amante e sostenitore delle arti e della cultura.
Nel Medioevo, l’eredità del consigliere romano la prendono tra le mani papi e cardinali, così come famiglie nobili e facoltose. Le Vite del Vasari, pubblicate nel XV secolo, sono una delle prime e più dettagliate testimonianze del sistema dell’arte nell’Italia rinascimentale, con affondi preziosi sulla rete del mecenatismo religioso e nobile dell’epoca, a cui si andava accostando la ricca classe mercantile e borghese. Ma il passaggio fondamentale si ha agli albori del XVII secolo, quando nel nord Europa i mercanti olandesi iniziano a imporsi sulla scena e hanno origine le aste pubbliche, che si diffondono poi in Inghilterra verso la fine di quello stesso secolo. Questo contribuì a far evolvere il mercato da un antico sistema di mecenatismo cortese a una moderna economia di domanda-offerta, in cui i membri delle classi sociali incluse, non più solo nobiliari o clericali ma pur sempre elitarie, si contendevano manufatti artistici per distinguersi dai propri pari.
Superata la necessità, da parte degli artisti, di appoggiarsi a figure quali mecenati, nobili, o più semplicemente di ottenere commissioni e approvazione da parte di esperti per poter essere considerati a tutti gli effetti artisti e poter in tal modo diffondere e vendere con successo le proprie creazioni – basti pensare alla stretta selezione, talvolta ottusa e chiusa di fronte alle innovazioni artistiche, messa in atto dalla giuria del Salon di Parigi -, inizia a svilupparsi, con l’avanzare della seconda metà dell’Ottocento, una rete di relazioni, contatti che permette a tutti coloro che vengono ritenuti meritevoli di ottenere la propria occasione di fare carriera nell’arte. È infatti con la nascita del cosiddetto Salon des Refusés, che riuniva gran parte degli artisti non accademici e dunque rifiutati dal Salon ufficiale organizzato e controllato dall’Académie des beaux-arts di Parigi, che entrano in gioco figure che poi andranno a occupare il centro della scena e del mercato artistico: i mercanti d’arte, talvolta evolutisi successivamente in galleristi. Tra i primi a distinguersi in questo ruolo c’è senza dubbio Paul Durand-Ruel (1831-1922), colui che viene considerato lo scopritore e quindi il mercante degli impressionisti.
L’impostazione e lo sviluppo del mercato procedono in maniera piuttosto lineare e costante per buona parte del secolo breve, vedendo sempre di più un riconoscimento e un’adeguamento da parte dei protagonisti del sistema artistico. Un’ulteriore scossa agli equilibri avviene negli anni Sessanta e Settanta, che vedono la nascita, lo sviluppo e la diffusione del pensiero postmoderno. Il Postmodernismo, in particolare in ambito artistico, è associato tendenzialmente alla smaterializzazione dell’oggetto, che in arte si traduce nell’avvento del concettuale. Questa dematerializzazione ha ampliato lo spettro economico del mercato dell’arte, passando dal dominio degli oggetti tangibili ad articoli immateriali come contenuti e diritti di proprietà intellettuale. Con l’arrivo del pensiero postmoderno e delle sue rivoluzioni, si assiste anche a un fenomeno a doppio senso che può forse tranquillizzare i puristi: non solo si verifica un’economicizzazione del mondo dell’arte, ma anche una culturalizzazione dell’economia.
I magnifici anni Ottanta
Un approfondimento doveroso riguarda gli anni Ottanta, considerati da tutti gli storici e studiosi come il giro di boa del sistema e del mercato dell’arte, riflesso e talvolta anticipazione dei mutamenti profondi della società e degli equilibri mondiali in generale che avvengono in quegli anni. A seguito dei quali si avvierà un processo di globalizzazione rapido ma costante e ancora in corso.
I profondi e sostanziali cambiamenti in ambito geopolitico, sociale e dunque inevitabilmente anche artistico che hanno caratterizzato il Novecento hanno portato tuttavia a una progressiva accettazione della sfera commerciale dell’arte, arrivando addirittura a porla, in alcune occasioni, quale oggetto d’indagine dell’arte stessa. Se l’ondata del Sessantotto aveva portato radicali cambiamenti nella società in maniera piuttosto repentina, forse ancora più rapida ed estrema è stata l’inversione di rotta che, a partire dai primi anni Ottanta, ha condotto il mondo occidentale verso la società dei consumi. Quest’ultima è stata, in parte, una risposta alla profonda crisi che aveva coinvolto tutti gli ambiti, dalla politica all’economia, dalla cultura al vivere civile, durante gli anni Settanta. Gli anni Ottanta videro una diffusione mai così estesa del benessere. Da un periodo di forti ideali, spinte rivoluzionarie profonde e diffuse, dunque, la società di fine secolo si abbandona rapidamente agli aspetti più frivoli del vivere, al consumo sfrenato delle merci e alla coltivazione di uno stile di vita che viene da molti definito come superficiale, almeno in apparenza. In questo clima rivolto al benessere, alla sua ostentazione e ricerca continua, il mondo dell’arte vive quello che con ogni probabilità è il periodo più florido della sua storia recente. La crescita apparentemente inarrestabile della ricchezza aveva portato i nuovi ricchi, oltre a quelli vecchi, a interessarsi a nuove forme di investimento che potessero anche segnare e mostrare l’alto valore sociale conquistato grazie ai soldi. L’arte diventa strumento principale e fondamentale di questa ostentazione. La società dei consumi raggiunge l’apice, spronata da forme di governo capitaliste e neoliberiste diffuse ormai in gran parte del mondo occidentale – non a caso la stampa dell’epoca conia il termine “edonismo reaganiano”.
Le risposte artistiche alla nuova situazione sociale non furono tutte radicali e oppositive. Innanzitutto, una nuova ondata di pittura stava travolgendo il mondo dell’arte occidentale, significativo considerando che la tecnica pittorica è tra le più apprezzate dalle masse e facilmente commercializzabili. Ma più in generale, in tutto il mondo dell’arte fiorirono in quel periodo diversi movimenti, o anche solo esperimenti, che abbracciavano la società capitalista. Sebbene gli anni Ottanta possano essere considerati l’apice di questa tendenza, infatti, da decenni alcune frange artistiche avevano accettato, talvolta con entusiasmo, la pervasività della merce e della sua pubblicità nella vita di tutti i giorni. Basti pensare alla Pop Art, che dalla lezione duchampiana fu in grado, forse più di ogni altro movimento artistico precedente, di confondere il confine tra opera d’arte e merce.
Nel 1982, sulle pagine di Artforum compare un editoriale scritto da Ingrid Sischy e Germano Celant nel quale si afferma che la rivista abbraccerà d’ora in poi “un panteismo artistico”, la commercializzazione dell’arte e la culturalizzazione delle merci. Questa espansione e inclusione porta, di conseguenza, a uno sconfinamento dell’arte al di fuori degli spazi preordinati e tradizionali, arrivando a includere, potenzialmente, tutto quanto, ovunque.
Dopo il picco massimo di benessere e potere del mercato dell’arte tra il 1988 e il 1990, l’inizio degli anni Novanta vedrà poi un lungo periodo di recessione che metterà in crisi un sistema a tutti gli effetti drogato di euforia speculativa e successo immediato. L’arte, come molti altri aspetti della vita, diventa nella nuova società capitalista un business economico rilevante e sempre più diffuso. Da fenomeno intellettuale ed elitario passa rapidamente a essere d’interesse collettivo e alla portata potenzialmente – e apparentemente – di chiunque. Proprio questa diffusione lo definisce non come sintomo, bensì come premessa di una globalizzazione che di lì a poco sarebbe diventata realtà. In particolare, di fronte alle difficoltà economiche tra la fine del vecchio millennio e l’inizio del nuovo, la nuova impostazione della vita delle persone e le nuove abitudini di spesa e di consumo sembrano far emergere una tendenza che riprendere, in parte, quella avvenuta con il concettualismo degli anni Sessanta e Settanta: la smaterializzazione dell’arte. Non si ricercano più, infatti, prodotti materiali, quanto piuttosto esperienze. L’arte, in particolare contemporanea, si pone come strumento per osservare e comprendere la vita con altri occhi e prospettive.
Nuove realtà e personalità
L’apertura e l’estensione del mercato dell’arte porta all’emergere di nuove figure nel sistema, o più semplicemente a un’evoluzione di quelle già coinvolte. L’arte, soprattutto se contemporanea, rappresenta ora uno status symbol, in particolare per i nuovi ricchi, che vogliono mostrare di essere colti e alla moda. Allo stesso tempo, proprio grazie all’inedita visibilità e diffusione raggiunte, il mezzo artistico viene sfruttato quale strumento al servizio del potere, capace di persuadere e orientare i gusti, le scelte.
Il mercato azionario internazionale vede l’inizio di una fase di grande prosperità nel 1982, arrivando nel giro di circa due anni a influenzare profondamente il mercato dell’arte. Quest’ultimo era invocato quale elemento virtuoso, capace di riconoscere e premiare il merito al di là di ideologie, dietrologie e gusti personali di critici e istituzioni, in una tendenziale democratizzazione dei meccanismi e delle dinamiche. Queste ultime si ribaltano. È il mercato, ora, il punto di partenza, che ha come conseguenza le idee e le opere, non più il contrario. Ciò anche grazie alla nuova visione dell’arte che permette, anzi incoraggia, il recupero e la trascrizione in termini contemporanei del passato, offrendo in tal modo una scelta potenzialmente infinita di idee da tradurre poi in forma artistica, in oggetto che diventa, senza soluzione di continuità, merce.
Con la riduzione, nel corso del XX secolo, della forbice che divideva cultura “alta” e “bassa”, oltre a una democratizzazione della cultura e dell’intrattenimento, si arriva a un mescolamento libero di ambiti e linguaggi anche distanti tra loro per la realizzazione di un prodotto culturale. L’arte, da parte sua, prende due vie opposte: si popolarizza per quanto riguarda la fruizione, mentre diventa profondamente elitaria da punto di vista del possesso. Il valore di un’opera inizia a essere assimilato al suo prezzo. Mentre le nuove generazioni di artisti, così come i nuovi fruitori di arte, sembrano accettare questa assimilazione senza troppe resistenze, i puristi dell’arte difficilmente accettano il lato commerciale della stessa. Questi anni ricchi di fermento e cambiamenti sono gli anni in cui emergono e si impongono nel sistema artistico quelle che possono essere considerate le massime espressioni dell’aspetto commerciale e di merce dell’arte: le gallerie, le fiere e le case d’asta. È nel 1987, per esempio, che si registrano le prime vendite all’asta a prezzi clamorosi. La prima è quella del 30 marzo, quando nella sala della casa d’aste londinese Christie’s venne bandito il quadro Girasoli di Van Gogh, acquistato nel 1934 per cinquantamila sterline, all’incredibile cifra di quaranta milioni di dollari. Il record venne però presto superato da un altro quadro dello stesso artista. L’11 novembre dello stesso anno, la casa d’aste rivale, Sotheby’s, vendette a New York Iris per 53,9 milioni di dollari. Da qui in poi i record si rincorrono febbrilmente, facendo registrare il biennio tra il 1988 e il 1989 come il picco di questa ondata di sviluppo e benessere del sistema e del mercato artistico. Per rendersi conto della portata di questi cambiamenti, è sufficiente mettere a confronto due coppie di anni a poco meno di un decennio di distanza: tra il 1979 e il 1980, i dipinti che nelle aste americane superarono la cifra simbolica del milione di dollari furono quattordici. Nel biennio 1987-1988, invece, furono centoventuno.
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La prostituzione dell’arte
L’immagine dell’arte prostituta, e di conseguenza l’accostamento tra pittore e prostituta, è ricorrente negli scritti di artisti e intellettuali, soprattutto all’inizio del secolo scorso. Il tema deriva, in particolare, dalla letteratura e si impone a partire da Charles Baudelaire. Ma il mondo cambia, la società e le opinioni pure, e sebbene ancora oggi c’è chi storce il naso quando si accosta l’arte al vile denaro, nessuno – se non qualche passatista indefesso – si sognerebbe più di paragonare gli artisti in carriera, e quindi ben inseriti nelle dinamiche di mercato, a dei venduti senza morale o talento.
Ma tutto questo non spiega una delle domande principali che la maggior parte delle persone si pone all’ennesimo annuncio di una vendita milionaria (quando non miliardaria) di un’opera all’asta: perché? Perché pagare cifre inimmaginabili per persone comuni per l’acquisto di qualcosa che presenta un valore materiale spesso infimo rispetto al ricavato? Cosa muove un collezionista a investire e rischiare in tal modo? Come spesso accade, non esiste davvero una risposta a queste domande, o quantomeno non una risposta univoca. C’è chi lo fa per passione, emozione e chi per evidenziare (e talvolta acquisire) uno status symbol. C’è chi lo fa per investimento e il brivido del rischio. Una cosa è certa però: l’arte non può esistere senza il mercato – o, come l’ha definito il manager d’azienda e collezionista Guido Rossi, il “contro-mercato” dell’arte.

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Immagine in evidenza fonte: sothebys.com