Saldamente ancorata a un’oblatività che travalica il dovere di cura, la rappresentazione del femminile, invadendo lo spazio pubblico, a partire dagli anni Sessanta si apre a una ridefinizione totale. Il rifiuto del ruolo ufficiale, dell’ideal-tipo incarnato dalle madri si intreccia a un senso di spaesamento che impone la necessità di confrontarsi con veicoli di affermazione ancora ritagliati sull’identità maschile. Il timido accesso a tutte le professioni, la militanza politica come strumento di liberazione, tutto è orientato a una decostruzione che investe persino i corpi, superando il modello pin up anni Cinquanta o la fisicità visivamente accogliente della generazione postbellica.
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In questa prospettiva, il cinema si pone ancora una volta come un osservatorio privilegiato, capace di intercettare cambiamenti e tensioni sottese a una ridefinizione del femminile che molto deve ai modelli d’oltreoceano e, più avanti, alle riflessioni di Carla Lonzi, una delle voci più risonanti del femminismo italiano.
Il “suo” «Soggetto Imprevisto», la «donna clitoridea» che supera e rifiuta la sessualità vaginale, sgretola l’ordine patriarcale prendendo coscienza di sé e dei condizionamenti subiti, indotti, esito di una storia tracciata per lei, confinata entro i ranghi di un’alterità “riposante“. Un soggetto che nasce, come rammenta Lucia Cardone, «da un doppio movimento: dalla decostruzione puntuale del “momento più alto raggiunto dall’uomo (con l’arte, la religione, la filosofia, esattamente in senso hegeliano)”; e dalla riflessione autocoscienziale che mette primariamente a tema la sessualità», spazio di colonizzazione maschile atto a divenire zona di libertà mediante lo svelamento del grande inganno della passività della donna.
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Di questo percorso di riscoperta Lonzi riflette la gioia inattesa – la bellezza del ritrovarsi tra donne – ma anche il risvolto impervio, irto di sbandamenti e dolore nella ricerca di autenticità che ne è alla base. Il rifiuto dei ruoli imposti dal patriarcato, dei comportamenti e rapporti sinora assunti come norma, provoca «un senso indicibile di estraneità», la stessa – più sotterranea – delle donne del decennio precedente, le quali iniziano un cammino di smarcamento reclamando rapporti umani “nuovi”, in linea con i loro desideri.
Il cinema, si diceva, è in questo senso una lente di ingrandimento. Ancora maneggiata dagli uomini (i maestri della commedia all’italiana Germi, Salce, Scola etc.), ma capace di rintracciare i segni del Soggetto Imprevisto, di questa donna irriducibile alla norma, centrata sul desiderio e la materialità del corpo. Vi è Antonio Pietrangeli, anzitutto, che fa del soggetto femminile il perno delle sue analisi, in un racconto d’Italia in cui il nuovo ciclo di produzione e i bisogni indotti dal “boom” non fanno in tempo a innestarsi sul tronco della società contadina. La Pina de La visita (1963) interpretata da Sandra Milo, e ancor più Adriana (Stefania Sandrelli) de Io la conoscevo bene (1965) sono inconsapevoli antesignane della rivoluzione sessuale iniziata col Sessantotto – beffardamente anno di morte del regista e che avrà nel figlio Paolo il suo principale cantore.
Proprio Sandrelli, con il suo candore naïf, il corpo esile e quasi tardo-adolescenziale, di una bellezza liliale ma maliziosa si afferma, insieme a Catherine Spaak, come emblema di una femminilità ancora fragile (l’Adriana di Pietrangeli è una creatura quasi smarrita) eppure consapevole della propria specificità, dell’urgenza di scoprire attraverso il corpo. Spaak, la cui immagine riposa per anni sul crinale tra “ninfetta” e giovane libera, incarna un’indipendenza che passa attraverso un’altra concezione del matrimonio (Adulterio all’italiana; Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare, entrambi di Pasquale Festa Campanile, 1966 – 1967) o un fascino conturbante di cui si ha contezza (La voglia matta di Luciano Salce, 1962; Il sorpasso di Dino Risi, 1962; La parmigiana di Antonio Pietrangeli).
Non meraviglia, ad ogni modo, che i segni più chiari del Soggetto Imprevisto si colgano su un altro piano, al di là della commedia, ovvero nel formalismo di Michelangelo Antonioni, in quell’incomunicabilità che plasma i volti, orienta i gesti. La sua tetralogia sulla “malattia dei sentimenti” porta in scena donne osservate nei loro comportamenti incongrui, all’apparenza sfasati, totalmente inconciliabili con il sistema patriarcale. Così, come nota ancora Cardone, «è possibile leggere la scomparsa di Anna (Lea Massari) in L’avventura (1960), che si sottrae in modo definitivo e misterioso al desiderio del fidanzato e alle aspettative del padre». O ancora Lidia (Jeanne Moreau) in La notte (1961), capace di rompere il diktat della coppia rifiutandosi di celebrare il successo del compagno (Marcello Mastroianni). E ancora Giuliana (Monica Vitti) de Il deserto rosso (1964) che fugge il dovere di moglie e madre tradizionale e, pur nella nevrosi, riesamina i rapporti della sua vita, saggiando la pochezza della società contemporanea, già proiettata in un orizzonte distopico.
È forse Vitti, come mostra ancora il suo ruolo in L’eclissi (1962) – una donna che fugge la stabilità relazionale per esplorare il terreno nomade dei sentimenti – a incarnare meglio di chiunque altra il Soggetto Imprevisto. Capace di sgretolare, da attrice, il dominio maschile della commedia all’italiana (prima donna nell’impero dei ‘colonnelli’ Gassman, Sordi, Tognazzi, Manfredi), riesce a trasferire sullo schermo i cambiamenti di costume, gli enormi stravolgimenti dell’Italia del boom.
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Mora, scarmigliata, e ancora fulva nella swinging London solcata alla ricerca di colui che “la disonorò” (Carlo Giuffé), la sua Assunta Patané fa il verso al Fefé Cefalù di Divorzio all’italiana (Pietro Germi, 1961) e la rende una “vestale moderna” (e già “in minigonna”, come scrive Ugo Salvatore su La Stampa Sera a proposito dell’interpretazione in Modesty Blase di Joseph Losey, 1966), portavoce di una femminilità in dialogo con la libertà sessuale, con un diverso modello di moglie e madre come rivela in Ti ho sposato per allegria di Luciano Salce (1967) e Io so che tu sai che io so (1982) di Alberto Sordi.
«Antidoto al mito della donna-fanciulla» ha scritto Maurizio Liverani su Momento Sera del 22 novembre 1966. Un corpo in movimento, che scopre il potere e il piacere della moda (oltre alla pellicola di Salce è esemplare Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo di Citto Maselli, 1967), la libertà del corpo esibito, l’autenticità di un soggetto in divenire.
Fonti
Lucia Cardone, Donne impreviste. Segni del desiderio femminile nel cinema italiano degli anni Sessanta, in “Cinergie – Il cinema e le arti”, 5, marzo 2014, pp. 23-33.
Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel (1970), in Id, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale e altri scritti, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1974, pp. 60-61.
Dalila Missero, La voglia matta di esserci. Attrici, sessualità e ruoli femminili dalla commedia all’italiana al sexy, in Vaghe stelle Attrici del/nel cinema italiano, a cura di Lucia Cardone, Giovanna Maina, Stefania Rimini, Chiara Tognolotti, “Arabeschi”, 10, luglio-dicembre 2017, pp. 423-425.
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