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Governare l’ingovernabile: Agamben e il concetto di “dispositivo”

10 minuti di lettura

In un breve testo molto intenso intitolato Che cos’è un dispositivo? (acquista), eco di un altro dal medesimo titolo di Gilles Deleuze, Giorgio Agamben esplora un concetto chiave della prospettiva filosofica di Michel Foucault, tracciandone la genealogia, e integrandola agli sviluppi originali da lui stesso apportati. Foucault, che non ha mai affrontato direttamente la questione, ne ha dato però una definizione precisa contenuta nei Dits et Ecrits, di cui qui si riporta un estratto dal passo citato da Agamben: 

…col termine dispositivo, intendo una specie […] di formazione che in un certo momento storico ha avuto come funzione essenziale di rispondere a un’urgenza. […] Ho detto che il dispositivo è di natura essenzialmente strategica, in che implica che si tratti di una certa manipolazione dei rapporti di forza, di un intervento razionale e concertato dei rapporti di forza, sia per orientarli in una certa direzione, sia per bloccarli o per fissarli e utilizzarli. Il dispositivo è sempre iscritto in un gioco di potere e, insieme, sempre legato a dei limiti del sapere, che derivano da esso e, nella stessa misura, lo condizionano. Il dispositivo è appunto questo: un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati[1].

Dunque, il dispositivo è quell’articolazione di potere-sapere, in cui i due poli si trovano in reciproca relazione, della quale il filosofo francese ha dato esempi e letture soprattutto dagli anni Settanta. Agamben, come Deleuze, aggiunge[2] che un dispositivo, non avendo fondamento nell’essere, ma in insiemi di rapporti strategici mutevoli, non può essere diviso dalla produzione dei soggetti, in altri termini, dall’innescare, dal comportare processi di soggettivazione per poter effettivamente funzionare. Da qui, ne consegue che ogni “sostanza”, cioè il vivente opposto ai dispositivi, è toccato e attraversato da una molteplicità di tali processi, tra loro anche contraddittori, mobili e in cambiamento, con il soggetto che si trasforma nel risultato di un divenire di interazioni e di pieghe, in realtà, continuo.

il dispositivo secondo agamben

Al tempo stesso, è qui, nel costituirsi della soggettività, che si danno le linee di frattura, di bordo, le celebri “linee di fuga”, laddove, dice Deleuze: «Foucault […] intuisce che i dispositivi da lui analizzati non possano essere circoscritti da una linea che li inglobi, senza che altri vettori passino al di sotto o al di sopra di essa».[3] Ovvero, il sorgere di soggettività inaudite, impensate, di «grovigli da sciogliere»[4], proprio a partire da quel punto in cui un dispositivo, soprattutto non essendo unico, né stabile né perfettamente coerente, è impossibilitato a richiudersi nella sua stessa presa. Per quanto, come nelle istituzioni totali, sembrava poterci riuscire. Comunque, la soggettività e l’Aperto stanno lì

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Arricchito dalle ricerche che scandagliano la tradizione teologica occidentale, e riprendendo il concetto di Gestell in Heidegger, Agamben estende l’idea di dispositivo potenzialmente a tutto, in una torsione concettuale forte:

Chiamerò letteralmente dispositivo qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi. […] Il linguaggio stesso è forse il più antico dei dispositivi.[5]

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È impossibile, dunque, pensare processi di soggetivazione che avvengano al di fuori dei dispositivi, così come è impossibile separare nettamente l’individuale dal sociale e, lacanianamente, il soggetto dal significante e dal discorso. Ma Agamben aggiunge come, in realtà, oggi si assista a una «accumulazione e proliferazione»[6] dei dispositivi: nella conseguente moltiplicazione dei processi di soggettivazione, si hanno, parimenti, processi di desoggettivazione sganciati e indifferenti. Qui, con ironia caustica, forse un po’ miope per l’estremismo, Agamben usa le figure dello zappeur imbambolato davanti alla televisione, dell’utilizzatore del cellulare o del cittadino democratico che esegue i suoi doveri circondato dalle telecamere della città: essi non ottengono soggettivazioni in cambio del contatto col dispositivo, se non in una forma “larvata”, “spettrale”[7]. Del resto il potere disciplinare si indirizza alla produzione di corpi docili e addomesticati, ma nella ricomposizione di un nuovo soggetto (es. il criminale) dopo una sua preliminare desoggettivazione.

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Un potere riesce a funzionare nella misura in cui, potremmo dire, cerca di suturare la distanza, la scissione, il taglio, tra soggetto dell’enunciato e soggetto dell’enunciazione. Agamben cita, non a caso, la confessione cristiana[8], di cui possiamo cogliere il funzionamento in quell’ “appartenenza essenziale”[9] del soggetto all’io-peccatore, suo negativo, da scovare, indagare, far parlare e redimere. È qui, in modo estremamente interessante, che si possono innestare tali concetti nell’ambito di una sistemazione intellettuale ambiziosa, come Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff.

Nella sua inquietante disamina delle procedure di datificazione, raccolta, quantificazione, analisi, manipolazione, di ogni minimo aspetto dell’esperienza umana, basate su un’antropologia di derivazione comportamentista e da utopie di società in cui si potranno finalmente evitare le “imperfezioni” della natura umana grazie al controllo perenne[10], il tutto indirizzato a un nuovo campo di accumulazione e sfruttamento capitalistici, l’autrice mostra non solo quella tendenza, indicata da Agamben, all’intensificazione e proliferazione dei dispositivi, ma anche come tali procedure necessitino di far fare, di spingere all’azione, in modo da sviluppare previsioni più minuziose e accurate, generando un un circolo vizioso di condizionamento, volto all’estrazione di un “surplus comportamentale” sempre maggiore, fonte diretta del guadagno odierno.

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La previsione, insieme al diktat dell’assicurazione, vuoi per le assicurazioni private statunitensi o l’assicurazione dello Stato contro ogni devianza (es. i crediti sociali cinesi), diventa il mezzo attraverso cui, con il rafforzamento di una sorveglianza panoptica[11] variegata, avviene l’azione del potere. In effetti, esso può funzionare nella misura in cui non solo siano stati raccolti più dati possibili (aspetto quantitativo), ma che sia accorciata, e colmata, la distanza tra l’immagine renderizzata dell’individuo e il suo corpo vivo attraversato dai processi di soggettivazione, piegati dal singolo nel suo divenire specifico esistenziale (aspetto qualitativo); schiacciare tale immagine, estratta dalle tracce della sua interazione con i dispositivi, sul suo corpo desiderante, in modo da implementare e orientare il suo comportamento. In altri termini, far collimare il soggetto dell’enunciato, dove gli enunciati sono i dati prodotti, raccolti e analizzati, e il soggetto dell’enunciazione, cioè raggiungere il punto stesso di emissione degli enunciati e della possibilità, tutta umana, di torcerli creativamente e soggettivamente. Alcuni lo chiamano inconscio. In altre parole: governare l’Ingovernabile umano e, soprattutto, trarne profitti

Mattia Giordano


Note:
[1] M. Foucault, Dits et ecrits, vol. III, pp. 299-300, cit. in G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Milano, Nottetempo 2006, pp.6-7
[2] G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Milano, Nottetempo, 2006, p.19
[3] G.Deleuze, Che cos’è un dispositivo?, trad. it. Antonella Moscati, Napoli, Cronocopio, 2007, p.16
[4] Ivi, p.20
[5] G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Milano, Nottetempo 2006, pp. 21-22
[6] Ivi, p. 23
[7] Ivi, pp. 30-33
[8] Ivi, pp. 29-30
[9] M. Foucault, La volontà di sapere, trad. it. Pasquale Pasquino e Giovanna Procacci, Milano, Feltrinelli, 1978, p.58
[10] Riecheggia l’intuizione deleuziana del Poscritto sulle società di controllo (1990)
[11] vedi, M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it.  Alcesti Tarchetti, Collana Paperbacks, n. 77, Torino, Einaudi, 1976

Immagine di copertina: Photo by Rodion Kutsaev on Unsplash

 


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Mattia Giordano

Classe '95, milanese, laurea magistrale in Psicologia, appassionato di psicoanalisi, filosofia, teoria critica, letteratura per lo più italiana e francese. Anche di cinema e teatro, perché ci sono, e ci saranno sempre, film e spettacoli belli. Musicista e scrittore a tempo perso, si spera un giorno a tempo pieno. Ha fatto un po' di tutto, quindi, probabilmente, niente.

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