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Psicoanalisi ed esperienza estetica

Come si qualifica l’esperienza estetica? La teoria di Christopher Bollas nel solco del filone post-freudiano.

14 minuti di lettura

Nei primi due capitoli de L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato, uno dei classici della psicoanalisi contemporanea, lo psicoanalista britannico Christopher Bollas traccia una teoria non filosofica dell’esperienza estetica nel solco del filone post-freudiano; oltre alla sua illustrazione, ne mostreremo le anticipazioni, sorprendenti e suggestive, in alcuni scritti di estetica di Sigmund Freud, pur non potendo approfondirli tutti. Per l’autore, coerentemente con la tradizione psicodinamica, le primissime esperienze infantili, fatte di tocchi, gesti, suoni, parole, azioni, ecc. ricevuti e scambiati, sono vissute e registrate a un livello altro dalla rappresentazione. Sono tracce, dunque, di intensità somato-affettive. È un allargamento del concetto stesso di inconscio, invenzione cardine della psicoanalisi, illustrato da Christopher Bollas nei termini di un “conosciuto” non traducibile direttamente in pensiero, poiché ne costituisce la forma più che il contenuto.

Rifacendosi a un pilastro del XX secolo come Donald Winnicott, la madre non è solo un oggetto opposto al soggetto, né tanto meno un altro soggetto, ma la cosiddetta “madre-ambiente”, il contenitore ambientale che garantisce o meno una “continuità dell’essere” al bambino, ovvero quella necessaria continuità dell’esperienza in cui le discontinuità percepite (stimoli ingovernabili, frustrazioni, ecc.) vengono mitigate e, soprattutto, trasformate. È l’alba della mediazione, principio della relazione. L’idea di ambiente è legata al fatto che la madre corrisponde inizialmente all’ambiente totale, ed è quell’oggetto speciale capace di trasformare l’ambiente circostante, facilitando, allo stesso tempo, l’attività del bambino a fare altrettanto, in prima battuta con se stessa. Il modo in cui la madre attua questo processo è unico a quella diade, chiamata da Christopher Bollas, non a caso, “estetica”. L’idioma della cura (da sottolineare che il termine “idioma” richiama già il simbolico) è ciò che dà forma a queste prime tracce, che forniranno la base ai rapporti oggettuali nella vita adulta, dove la ricerca dell’oggetto trasformativo si sposta, gradualmente, sugli innumerevoli altri oggetti del mondo esterno (persone, ma non solo), nell’ambito della crescente integrazione psicosomatica e autonomia del bambino. Non a caso, per Christopher Bollas, l’oggetto è cercato, in generale, come «significante del processo di trasformazione».1

Ma come si qualifica l’esperienza estetica? Riprendendo citazioni del critico letterario Murray Krieger, nel secondo capitolo, essa è descritta come una “modalità” dell’esperienza, in cui ci si ritrova “bloccati”, controllati eppure liberi di giocare, in cui l’oggetto incontrato tende a trattenere a sé il soggetto: è, misteriosamente, il suo obiettivo. Vedremo come il tema del gioco, centrale in Donald Winnicott, era già presente in Freud. L’essere bloccati nell’oggetto corrisponde a quell’attenuarsi delle distinzioni tra Sè e Altro, in cui l’Oggetto, se nelle esperienze psicotiche influenza il Soggetto nella forma della persecuzione, è più generalmente apertura alla trasformazione. Per questo Christopher Bollas accosta questo alla presenza di un oggetto sacro: un incontro con l’ordine del destino. Cosa c’entra tutto ciò con le arti? Nella ricerca eterna di oggetti trasformativi, tutti fondamentalmente equivalenti simbolici dell’oggetto primario perduto nel processo di separazione, l’artista è colui che:

[…] ricorda per noi e ci fornisce occasioni per vivere i ricordi dell’Io della trasformazione. In un certo senso, l’esperienza del momento estetico non è né sociale né morale, è curiosamente impersonale, e addirittura spietata, poiché l’oggetto viene ricercato solo come portatore di un’esperienza.2

Christopher Bollas ricorda, però:

Trasformazione non significa gratificazione. La crescita è favorita solo in parte dalla gratificazione, e una delle funzioni trasformative della madre deve essere quella di frustrare il bambino. Analogamente, i momenti estetici non sono sempre occasioni belle o magnifiche – molti sono brutti o spaventosi, eppure profondamente commoventi proprio per il ricordo esistenziale cui attingono.3

Quest’ultimo passaggio è riconducibile al più famoso saggio d’estetica di Freud, dedicato a un fenomeno particolare: Il perturbante (1919). In tedesco, perturbante è detto un-heimlich, contrapposto a heimlich, parola molto complessa che appartiene all’area semantica del “familiare”. L’unheimlich ne è dunque la negazione, il non-familiare, ciò che perturba un senso di fiducia e stabilità, un campo semantico che raggruppa lo strano, l’inquietante, lo spaventoso, l’orrorifico, contenendo, però, ciò che è familiare. Sottolinea Freud che tra i significati secondari di heimlich, paradossalmente c’è anche l’intimo, ciò che è più nascosto nella casa, usato persino da Friedrich Schelling nel senso di qualcosa che non sarebbe dovuto affiorare. Un non-nascosto che viene alla luce, ricollegato, psicoanaliticamente, al ritorno del rimosso. In un percorso che va dalla letteratura (paradigmatico il tema del doppio), alle pratiche magiche, all’animismo, alle superstizioni, alle strane ripetizioni (numeri, incontri, eventi, ecc.), il perturbante è interpretato come la sensazione che si accompagna quando:

il confine tra fantasia e realtà si fa sottile, quando appare realmente ai nostri occhi un qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico, quando un simbolo assume pienamente la funzione e il significato di ciò che è simboleggiato, e via di questo passo.4

Freud collega questa sensazione a due ordini di cause: o credenze primitive superate, che nel suo spirito illuminista e positivista si possono abbandonare, o complessi infantili rimossi, più difficili, se non impossibili, da sciogliere completamente. Il poeta è dunque colui che, nel creare un mondo di finzione, può giocare con questo confine, sia mettendosi sul piano della realtà condivisa con il fruitore, potendo così spiazzarlo, sia illudendolo, trascinandolo nel mondo creato senza svelarne le premesse, modulando attese, svelamenti e nascondimenti.

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Freud aveva già anticipato la questione in alcuni brevissimi scritti. Ne Il poeta e la fantasia (1907) egli accosta poeta e sognatore, nel posto peculiare che egli attribuisce al sogno. Non a caso afferma che il gioco infantile, in cui nel bambino agisce la fantasia nella mediazione con la realtà, è l’antecedente di quell’occupazione più adulta quali i “sogni ad occhi aperti” o il fantasticare. Curiosamente, in tedesco, lavori teatrali e giochi si dicono ugualmente Spiele. In questa fase, Freud vede nelle fantasie ad occhi aperti attività promosse dalle rinunce che la realtà impone al soggetto, delle soddisfazioni sostitutive di desideri, come i sogni. Esse, però, proustianamente si può dire, sono anche sollecitate e influenzate da esperienze della vita quotidiana. Esse, nel risvegliare i desideri, promuovono il ritorno al passato, un passato in cui il desiderio era realizzato (o nella speranza/potenza di realizzarsi) e ciò influenzerà quella fantasia in cui il desiderio del presente sarà realizzato nel futuro. I tre tempi dell’umano, così, si trovano uniti. L’eccesso di questa attività fantastica, rischiando di negare la realtà, può diventare foriera di psicopatologia. Che posto ha il poeta? Egli riesce, attraverso la sua arte, a comunicare le proprie fantasie velandole e mediandole, con una libertà sconosciuta alla vita quotidiana o all’uomo comune. Per Freud, l’effetto sul fruitore è tale che:

il vero godimento dell’opera poetica provenga dalla liberazione di tensioni nella nostra psiche. Forse contribuisce non poco a tale esito il fatto che il poeta ci mette in condizione di gustare d’ora in poi le nostre fantasie senza quel rimprovero e senza vergogna.5

Dunque, la trasformazione attuata dal poeta su di sé offre una possibilità trasformativa al fruitore, ovvero quella possibilità di esperienza estetica che, a sua volta, toccando il “conosciuto” può aprire lo spazio di “pensarlo”. Un esempio, molto comune, può accadere attraverso l’identificazione con il personaggio. In un curioso articolo dal titolo Eccezioni (1916), Freud chiama “eccezione” un modo di pensare che prevede il sentirsi in perenne credito verso il mondo, perno mentale di coloro che «Dicono di avere già abbastanza sofferto e subìto privazione, si considerano in diritto di essere risparmiati da ulteriori pretese, non vogliono più sottoporsi ad alcuna spiacevole necessità […]».6 La causa viene fatta risalire alla percezione di una sofferenza ritenuta ingiusta patita nell’infanzia. Molto argutamente, Freud cita il Riccardo III di Shakespeare, il vendicativo per eccellenza. Ora, si chiede, chi non si è mai sentito come il re del dramma, costretto dalla Natura alla deformità e alla menomazione? Chi non ha motivo di identificarsi al suo struggimento per qualche grande torto subito da sempre e senza colpa? Ai fini del nostro discorso, Freud puntualizza, però, che nel suo significato letterale il monologo di apertura non esplicita queste motivazioni profonde: dice solo che a causa della bruttezza, non può far l’innamorato, ma farà lo scellerato. La non esplicitazione è ciò che, in realtà, permette l’identificazione sulla base di un sentimento “conosciuto” da ogni spettatore, ma non pensato e detto coscientemente, che si andrà sviluppando lungo l’intero dramma. Ancora una volta, l’esperienza estetica è quella stimolazione o appello, mediante il lavoro dell’artista, al conosciuto non pensato del fruitore, talvolta riuscito, talvolta no. Per concludere:

In quanto realtà convenzionalmente accettata in cui grazie all’illusione artistica simboli e formazioni sostitutive possono suscitare affetti reali, l’arte costituisce un regno intermedio tra la realtà che frustra i desideri e il mondo della fantasia che li appaga, un dominio in cui sono rimaste per così dire vive le aspirazioni all’onnipotenza dell’umanità primitiva.7

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Note

1 C. Bollas, The Shadow of the Object. Psychoanalysis of the Unthought Known, trad. it.  L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008, p.4.
2 Ivi, p. 17.
3 Ibid.
4 S. Freud, Il perturbante, OSF vol. 9, trad. it. di S. Daniele, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 297.
5 S. Freud, Il poeta e la fantasia, OSF vol. 5, trad. it. C.L.Musatti, ivi, p. 59.
6 S. Freud., Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico, OSF Vol. 8, trad. it. Mario Ciarpaglini, ivi, p. 227. 
7 S. Freud, L’interesse estetico della psicoanalisi, in L’interesse per la psicoanalisi e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, trad. it. Elvis Fachinelli, ivi, p. 181.

Mattia Giordano

Classe '95, milanese, laurea magistrale in Psicologia, appassionato di psicoanalisi, filosofia, teoria critica, letteratura per lo più italiana e francese. Anche di cinema e teatro, perché ci sono, e ci saranno sempre, film e spettacoli belli. Musicista e scrittore a tempo perso, si spera un giorno a tempo pieno. Ha fatto un po' di tutto, quindi, probabilmente, niente.

2 Comments

  1. Caro Mattia Giordano,
    ho letto il Suo articolo sulla Kristeva e mi è piaciuto molto.
    Mi sono incuriosito e ho cercato altri suoi labori. Ho lettto il titolo di quello sull’esperienza estetica e ho pensato a Bollas. L’ho scorso e h notato con piacere che questo Suo lavoro è dedicato soprattutto a lui (lo legggerò).
    Le faccio i miei complimenti
    Giorgio Campoli psichiatra (quaranta anni nei Servizi di Salute Mwntale e psicoanalista d4lla Società Psicoanalitica Italiana

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