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Introduzione all’amore in Jean-Paul Sartre

Che cos'è l'amore? Nel terzo capitolo della sua opera più importante, «L’Essere e il Nulla», prova a spiegarlo Jean-Paul Sartre.

14 minuti di lettura

Amore, seduzione, masochismo, linguaggio, indifferenza, desiderio, sadismo, odio: il terzo capitolo dell’opera più importante di Jean-Paul Sartre, L’Essere e il Nulla, tratteggia il profilo di quelle che chiama le relazioni concrete con gli altri, cioè le forme di relazione tra ciò che il filosofo chiama il per-sé e l’in-sé, in particolare di fronte ad altri. La struttura di base è così riassunta: 

Il per sé, in quanto nullificazione dell’in-sé, si temporalizza come fuga verso. Supera infatti la sua fattività – o essere dato, o passato, o corpo – verso l’in-sé che sarebbe se potesse essere il suo fondamento. […] Il per-sé tenta di sfuggire alla sua esperienza di fatto, cioè al suo essere là, come in-sé di cui non è il fondamento, e che la fuga avviene verso un avvenire impossibile e sempre cercato in cui il per-sé sarebbe in-sé-per-sé, cioè un in-sé che sarebbe a se stesso il proprio fondamento. Così il per-sé è fuga e ricerca insieme; il per-sé è cercante-cercato.

È bene sottolineare che ciò non avviene in due tempi distinti; anzi, il per-sé, come nullificazione del puro dato, della pura passività, è già in origine relazione. Questa relazione si instaura nella presenza di altri, e nel dovere, impossibile da evitare, di fare i conti con questa presenza. Ne consegue un conflitto. Per Sartre, il conflitto si può porre a partire dall’altro come sguardo, che, nello stesso tempo, mi spoglia di essere, come corpo nudo, corpo esposto, oggetto, e mi conferisce essere, cioè mi fissa nell’essere-oggetto. Davanti a ciò, vi sono ciò che lui chiama atteggiamenti, cioè maniere di rapportarsi all’«oggetto che io sono per altri». Il sorgere della coscienza d’essere-oggetto è infatti, a sua volta, possibilità di messa in moto della trascendenza, cioè della libertà, in quanto essa è, come detto sopra, fuga. L’essere-oggetto è esserlo in presenza d’altri, «sono la prova di altri, ecco il fatto originale». La struttura di questi atteggiamenti va incontro a due forme opposte, di cui una è la morte dell’altra, cioè subentrerebbe al fallimento di una o dell’altra. Il conflitto è circolare. Posso, a mia volta, oggettivare gli altri, negando così la mia oggettività. Oppure, assorbire la trascendenza altrui, ma mantenendola nel suo carattere di trascendenza. In entrambi i casi, ed entrambi fallimentari, vi sarebbe il tentativo, disperato, di essere fondamento a se stessi. È bene ribadirlo: la questione non viene concepita come un momento A a cui segue un momento B. Al contrario, per Sartre, il progetto di assimilazione o oggettivazione altrui sta alla radice dell’essere del soggetto

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Allo stesso tempo, però:

Questo essere mi viene rappresentato come il mio essere, ma a distanza, come il cibo nel supplizio di Tantalo, e io vorrei stendere la mano per conoscermi e fondarmi con la mia libertà. Perché, se in un certo senso, il mio essere-oggetto è un’insopportabile contingenza e puro possesso di me da parte dell’altro; in un altro senso, questo essere è come l’indicazione di ciò che bisognerebbe che io riprendessi e fondassi per essere il mio fondamento. Ma ciò non è concepibile se non assimilo la libertà d’altri.

Si sarebbe sempre, in Sartre, nella vana tensione a essere fondamento a se stessi, cioè l’eterno desiderio di essere (che non è l’esistere, ex-sistere, proiezione nel fuori, trascendenza, o ancora mancanza), ovvero nel progetto di “essere Dio”. Il fine richiederebbe il raggiungimento dell’unità con l’altro, essendo l’altro fondamento del mio essere. Ma tale unità è impossibile e irrealizzabile, data la condanna ad esistere, cioè ad essere liberi. Nei due capitoletti sugli atteggiamenti, Sartre traccia due grossi flussi: il primo va dall’amore al linguaggio alla seduzione al masochismo. Giunto al masochismo, ne intuisce i rapporti col sadismo. Ma questo è posto, nel capitolo dopo, in una linea che va dall’indifferenza, al desiderio sessuale, al sadismo e all’odio. I due presentano, come analogia, la centralità assoluta di un essere-oggetto.

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La prima linea è la linea del tentativo di assorbire la trascendenza altrui mantenendola come trascendenza: al suo culmine nell’amore, al suo estremo fallimento là dove la libertà è solo quella dell’altro di cui io mi faccio oggetto. Da Sacher Masoch ad Atti di Sottomissione di Megan Nolan la lista è interminabile. Persino Wherter pare farsi l’oggetto, la cosa per eccellenza: un cadavere. Se è dall’amore che si parte, la domanda è netta: «perché l’amante vuole essere amato?» Basterebbe l’asservimento per placare l’inquietudine, ma, come illustra Proust, non funziona. In generale, all’amante non può bastare esser amato da un automa. Sartre puntualizza persino sul determinismo psicologico; in effetti, ti amo a causa del mio romanzo edipico non è una dichiarazione edificante. Il paradosso è che l’amante «vuole possedere una libertà come libertà», e il consenso libero, razionale e volontario non può dire granché. Ne consegue che la posta in gioco risiede a livello dell’essere stesso. La figura che spesso tratteggia il filosofo è quella, molto letteraria, dell’amante e dall’amata, dove si potrebbe discutere su quanto si oscilli tra l’universalità dell’esperienza e forse, un paradigma sottilmente parziale, etero e classicamente maschile (uomo attivo-donna preda). In altre pagine, soprattutto nel fallimento della dinamica, si parla di amante e amato, ripiegando più stabilmente su una struttura ontologica. Nell’amore, l’amante ricerca d’essere il mondo stesso dell’amata. Non certo il mondo come prigione, ma come il punto di insorgenza del mondo. La decisione, così, di contraccambiare sarebbe un vero «movente magico» dell’impegno che produce, poiché l’amante «vuole essere scelto come fine, ma come fine già scelto», cioè essere quel limite a partire dal quale l’amato accede alla libertà. In tal senso, l’amante diviene un oggetto capace di staccarsi veramente da tutti gli altri oggetti del mondo ed assurgere ad un piano altro per l’amata. Si toglie così dall’impiccio dall’utensilità, cioè la possibilità di essere usato come mezzo, utensile, dall’altro. Allo stesso tempo, cambia il rapporto con la fatticità: le fatticità degli amanti si compenetrano, l’amante contamina con la propria fatticità l’amata, poiché vuole essere il suo fondamento (fondamento di sé e dell’amato in particolare). Il rapporto con l’assoluto, così, si staglia all’orizzonte. La particolarità dell’esperienza, ed è qui il culmine che Sartre sa aprire, riguarda la stranezza della bontà; fin qui, apparirebbe la dialettica servo-padrone hegeliana, dove l’amante è il padrone e il servo l’amata. La particolarità che preserva dalla catastrofe è proprio la «scelta assoluta» che l’amata è portata a compiere. La scelta è e deve essere libera perché si tratti di amore. In tal senso, se l’amata diviene a sua volta amante, la fatticità del primo soggetto perde il suo senso scabroso di passività inerme, orrenda, da cui si fugge. L’insicurezza, l’inquietudine è sospesa. L’esistenza, all’improvviso, è «chiamata». La gioia dell’amore consiste, così, nella sensazione unica che la propria esistenza sia giustificata

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Per farsi amare è inevitabile una qualche attività: il suo modo è la seduzione. La seduzione, per Sartre, è paradossalmente scommettere sul farsi oggetto. Sottoporsi allo sguardo dell’altro, che, come detto sopra, è passivizzante, ha di mira il proporsi come un  insuperabile, un «pieno d’essere», una pienezza addirittura assoluta. E questo non può che passare per il linguaggio, inteso, in generale, come espressività intersoggettiva, in cui il senso non appartiene integralmente a chi lo utilizza. Il rischio è altissimo. Ma come si chiude il cerchio? Col punto di partenza: la seduzione non può ottenere la semplice ammirazione o la schiavitù, o non sarebbe amore, e se l’amata deve ricambiare, amando, cioè divenendo amante, progetterà di farsi amare, mettendo in moto il meccanismo. Se c’è la gioia, ecco, alla fine, anche la prigione: due soggetti che, progettando costantemente di farsi amare l’uno dall’altro, in realtà rimangono intrappolati in se stessi. Soli, cercano di superare il nulla che li abita, sotto il valore targato “amore”. Il nulla rimane insuperabile. Così sentenzia Sartre:

[…] gli amanti rimangono ciascuno per sé in una soggettività totale; niente interviene a liberarli del loro dovere di farsi esistere ciascuno per sé; niente toglie loro la contingenza e li salva dalla fatticità.

Forse le scene d’amore dei suoi romanzi, al limite tra melanconia e malinconia, così anti-erotiche e poco gioiose, si vanno a collocare in questo punto. È curioso notare come, invece del sadismo, sia il masochismo messo al limite del fallimento. In un colpo da maestro concettuale, Sartre ribalta la situazione: se l’aspetto fondamentale, nell’amore, è che la libertà dell’altro sia conservata come tale, piuttosto ci si farà oggetti per sbarazzarsi della propria. Se già Dante, ben prima del filosofo, aveva condensato il tutto in Amor c’ha nullo amato amar perdona, Sartre pare dire, all’entrata dei suoi inferni a porte chiuse: lasciate ogni speranza, voi che amate

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 Fonti:

  • L’Essere e il Nulla, traduzione di Giuseppe Del Bo, a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, Collezione La Cultura, Milano, Il Saggiatore, 2014, p. 422
  • Ibid., p. 423
  • Ibid., p. 423
  • Ibid., pp. 424-425
  • Ibid., p. 680
  • Ibid., p. 426
  • Ibid., p. 427
  • Ibid, p. 428
  • Ibid, p. 428
  • Ibid, p. 431
  • Ibid, p. 431
  • Ibid, p. 432
  • Ibid, p. 437

Mattia Giordano

Classe '95, milanese, laurea magistrale in Psicologia, appassionato di psicoanalisi, filosofia, teoria critica, letteratura per lo più italiana e francese. Anche di cinema e teatro, perché ci sono, e ci saranno sempre, film e spettacoli belli. Musicista e scrittore a tempo perso, si spera un giorno a tempo pieno. Ha fatto un po' di tutto, quindi, probabilmente, niente.

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