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«Amor de Don Perlimplín»: eros e sovversione in Federico García Lorca

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9 minuti di lettura

Alleluia erotico in quattro quadri e un prologo – versione da camera. Questo il sottotitolo del più “grande” tra i lavori minori di Federico García Lorca, epitome delle migliori elucubrazioni sull’amore e i suo sensi. L’intenzione comica – perennemente sul filo del dramma farsesco – non deve distogliere dalla complessità di fondo: Amor de Don Perlimplín con Belisa en su jardín è, a tutti gli effetti, una meditazione sul dolore senza volto, sulla deformazione scaturita dal viluppo delle passioni.

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L’opera teatrale, Amor de Don Perlimplín, bloccata dal ranocchiesco intervento censorio, va in scena nel 1933 dopo le goffe accuse di pornografia e sconcezza. Scene come il risveglio di Perlimplín con la testa adornata di corna scatenano la furia di Primo de Rivera, indefesso tutore della virilità coniugale. Interrogato in materia, García Lorca allude con viva raffinatezza:

Don Perlimplín è l’uomo meno cornuto del mondo. La sua immaginazione addormentata si sveglia al tremendo inganno della moglie; ma lui, poi, fa cornute tutte le donne che esistono[1].

È il paradosso l’unica sovversione del testo, «la vittoria dell’intelligenza e dell’amore sulle volgarità della vita»[2], uno schiaffo – dunque – ai precetti normativi.  

Convenzione e tragedia in «Amor de don Perlimplín»

E pensare che l’impianto è quanto mai “rassicurante”: personaggi, azione, tutto sembra mostrare un carattere convenzionale, pescato dalla sacca delle farse popolari, della novellistica del Trecento o, meglio ancora, di certe “cose” settecentesche e frivole. García Lorca delinea i tratti:

Questo è il bozzetto di un dramma grande. Vi ho posto soltanto le parole precise per disegnare i personaggi […] Ciò che mi interessa di Don Perlimplín è il contrasto fra il lirismo e il grottesco, e anche mischiarli in ogni istante.

Amor de Don Perlímplin
Manuel Veiga e Almudena Lomba, dir. Genoveva Pellicer (La Seca).
Fonte: elpais.com

L’intrico emotivo-fattuale in Amor de don Perlimplín si rivela difatti col procedere della trama, allorché gli schemi del sainete cedono il passo alle vette tragiche. Il sapiente, ossessivo, lavoro sui colori, pone gli accordi cromatici al servizio di una bidimensionalità intima e spaziale, giacché ancor prima del prologo – mentre pareti e arredi riflettono una luce statica – tutti i personaggi appaiono evidenti nei loro tratti stereotipati, dal vecchio “rincitrullito” alla giovane bramosa. Le sonate di Scarlatti, i sottofondi melodici, finanche le didascalie argutamente perentorie rivelano un’attrazione per il “taglio” consolidato, per l’ordito sottoposto a precisi sabotaggi.

«Amor de don Perlimplín» di Federico García Lorca: la trama

La trama è dunque rodata: l’anziano Don Perlimplín, padrone di greggi e terre, cede alle lusinghe del matrimonio quando la madre di Belisa gli mostra la figlia seminuda. L’uomo, privo di esperienze carnali, è succube di una serva e di questa madre-ruffiana, mentre la giovane – da par suo – si rivela anzitempo con un’eloquente canzoncina: «Amore, amore. / Tra le mie cosce chiuse / nuota come un pesce il sole. / Acqua tiepida tra i giunchi, / amore…».

Le nozze si fanno e l’unione fra corpo e anima dà esiti devastanti; chiamato a un “dovere” che non può ottemperare, Perlimplín paga il prezzo di amorose voglie, sospirando per Belisa in impeti voyeuristici:

Con tanti merletti mi sembri un’onda e mi incuti la stessa paura che da bambino provavo al mare. Da quando sei venuta dalla chiesa, la mia casa è piena di rumori segreti e l’acqua si intiepidisce da sola nei bicchieri. Ahi, Perlimplín… Dove sei, Perlimplín?

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Da farsa a tragedia

I tradimenti della ragazza (compreso il quintuplo della prima notte) segnano il suo destino di marito “inservibile”, troppo maturo per garantire – e garantirsi – i lieti afflati del sesso. Riesce a capire, accetta, vive l’amore come un «profondo taglio nella gola». Per avere Belisa non resta forse che un colpo di genio, una trovata bislacca – finemente immaginativa.
Ed è qui, crediamo, che si trova l’allaccio tra farsa e dramma.

Amor de Don Perlímplin
Manuel Veiga e Almudena Lomba, dir. Genoveva Pellicer (La Seca).
Fonte: es.teatrebarcelona.com

Invaghita di un misterioso corteggiatore – di colpo dimentica, inoltre, degli amanti focosi – la giovane anela l’incontro con quella carne che non conosce. Perlímplin, rassegnato a un rapporto impari («Tu sei giovane e io vecchio… Che possiamo farci?»), ascolta le confidenze di questa amabile sposa, si nutre – o così pare – del fuoco ardente delle sue viscere. Solo, eppur quieto, prepara l’ultimo “trionfo”: fa credere a Belisa di condurla dall’amato e lì, nel giardino delle delizie, si mostra come un’ombra che ha le sembianze dell’ignoto.

Dramma e misoginia in «Amor de Don Perlimplín»

Ecco, dunque, gli orizzonti della tragedia, i picchi vermigli di un delirio programmatico in Amor de don Perlimplín. Il marito e l’amante sono la stessa persona, l’individuo respinto è presenza e assenza. Ispirato da una passione mai praticata, corrotto – a suo modo – dall’eros smaliziato di Belisa, Perlímplin si fa beffa della carne e dei piaceri, rendendo il pensiero l’unica “tragica” virtù. È una fine elaborata, in cui convergono tracce pirandelliane e suggestioni boccaccesche.

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Il protagonista si uccide e, col pugnale nel petto, risveglia l’anima della giovane: questa non sa, confonde l’uomo col suo fantasma, ma in lei – finalmente – penetra il “dono” della pietà. «Ora Belisa ha un’anima!», esclama morendo Don Perlímplin e si potrebbe discutere di tanta misoginia, tracciare una linea che parte dal Medioevo, attraversa il Seicento e giunge intatta sino a noi, fra soggetti “appendicolari” e donne esistenti in quanto mogli (e compagne, amanti, fidanzate, sorelle…).

Il corpo come strumento d’analisi

Quella di García Lorca è però un’opera pienamente novecentesca, in cui il corpo di Belisa si fa strumento diagnostico, porta d’accesso a un’ambiguità tanto intima quanto plurale. È dal suo annientamento – dalla capitolazione della forza seduttiva – che procede l’attacco ai meccanismi del Potere. Simulacro della società “dabbene”, oggetto di culto e pertanto – di riflesso – elemento livellante, esso riassume il senso di una realtà fuggevole, sospesa tra pulsione di morte e dominio della vita. “Riducendolo” ad anima o meglio, combinandolo a una pulsione più profonda, García Lorca ne abrade il carattere visibile, scardinando acutamente le certezze direttive.
È il trionfo della finzione sul reale, l’elegante sberleffo ai custodi della norma.

Note

[1] F. García Lorca, El sol, Madrid 5 aprile 1933.
[2] C. Fusero, García Lorca, Firenze, dall’Oglio, 1969, p. 254.

 


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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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