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MARI Michele, writer photo: © BASSO CANNARSA

“Di bestia in bestia” di Michele Mari: la concorrenza sleale della letteratura

10 minuti di lettura

Di bestia in bestia è il romanzo d’esordio di Michele Mari, che nel 1989 era ancora uno studioso di letteratura moderna, con una produzione che contava saggi e traduzioni di testi letterari sette-ottocenteschi. Michele Mari si è con quest’opera insidiato nella letteratura italiana contemporanea, distinguendosi per il suo stile aulico, latineggiante, erudito e per le sue storie che rievocano quelle dei romanzi ottocenteschi; tanto che piacque fin dall’inizio alla critica letteraria: Giorgio Manganelli ne salutò caldamente l’esordio definendo il romanzo «un libro che se ne sta appartato, dispettoso, non facile, con il fascino di cosa venuta fuori dal nulla che qualche volta ci offre la letteratura».

La lingua, nel corso dell’opera, segue una vita parallela alla vicenda, rifiutando la verosimiglianza e scostandosi dal genere romanzesco per avvicinarsi alla lirica e alla trattatistica; si colora di patine seicentesche ed ottocentesche senza, però, disdegnare la grammatica dei secoli precedenti.

Nel prologo il romanzo si carica di tratti verniani, sia per l’eccentricità e la verbosità dei personaggi (i cui nomi sono calchi di alcuni aoristi greci) sia per la geografia impervia ed ostile del castello di ghiaccio – nelle sue segrete infatti si annidano orribili creature fantastiche. La storia poi si trasforma in una vera e propria indagine poliziesca che ripercorre le orme di Edgar Allan Poe o di Sir Arthur Conan Doyle, nel tentativo di applicare con ostinazione una logica a una serie di avvenimenti apparentemente casuali.

Mari recupera numerosi elementi della narrativa gotica, ricordando le avventure di Mary Shelley e Bram Stoker: compaiono ombre, castelli, manieri, pipistrelli, ritratti di donne defunte che somigliano a quelle in vita, segrete, cunicoli, rumori inspiegabili, tuoni e fulmini, una popolazione locale becera e bruta, mostri che seducono fanciulle ed il misterioso tema del doppio.

Il romanzo, però, non è solo questo. Parla soprattutto di libri (tanto che per l’autore rappresenta «una vendicativa resa dei conti con una giovinezza interamente dedicata alla letteratura»): il palazzo misterioso, infatti, racchiude una ricca biblioteca che Osmoc (anagramma di “Cosmo”) ha realizzato come suo regno, luogo della conservazione e dell’ordine assoluto, ed ultimo baluardo in difesa della violenza che si nasconde all’interno del castello e in contrasto con la forza della natura.

«Fui colpito dal rigore impeccabile con cui erano ordinati i volumi. Tanti, in una biblioteca privata, non ne avevo mai visti. Era uno spettacolo davvero imponente: immaginatevi decine di migliaia di libri in duplice ordine dal pavimento al soffitto, allineati con una precisione assoluta, e debitamente divisi secondo i criteri più saggi, quali per epoca e fra questi qualaltri (e s’intende i più antichi) per luogo di stampa e per torchio, altri per materia e nazione ed autore».

(Di bestia in bestia, pag. 20)

La biblioteca è più di un luogo fisico, in quanto rappresenta l’habitat mentale di Osmoc, tanto che i suoi libri sono la sua vera essenza, il loro linguaggio è diventato il suo, nelle loro pagine egli ricerca l’interpretazione del reale ed ha assunto le loro verità come proprie. Qui, tra gli scaffali della biblioteca, si cela il cuore del romanzo: la concorrenza sleale che la letteratura e i libri fanno alla vita, la cultura che è luce e salvezza, ma allo stesso tempo fardello accademico e impedimento alla vita, un trionfo e insieme una disfatta.

«E io mi rivalevo leggendo, sì: ridete? Leggevo imbarcandomi in letture più grandi di me avidamente perdendomi in quel mare infinito abbandonandomi al fluire dei sogni sognati contaminando con recidiva passione mia vita incolore ed il colore de’ poemi rifingendomi nomi e destini diversi cangiando mio stato con quello di Orlando e di Werther tapino veramente vanamente struggendomi di vano struggimento sognante per la sola volontà d’andarmi struggendo così nell’illusione struggente del sogno».

(Di bestia in bestia, pag. 84)

Osmoc ha imparato tutto dai libri, persino l’amore, eleggendo come suoi maestri i poeti della lirica cortese, che gli hanno insegnato ad amare tutte le donne per non amarne in realtà nessuna, che la natura dell’amore è quella del sogno, che lo spirito anela al sublime:

«Risale a quel periodo la mia passione per la lirica cortese. Riconoscevo in quella poesia un manifesto sentimentale che ben potevo dir mio e che fin troppo strettamente assunsi a regola di vita mia. Ahimè… Credevo di trovar nelle Lettere un alleato invincibile e mi davo in pasto al nemico, credevo di risparmiar gentilmente mia vita e l’uccidevo a veneno, credevo di salvarmi salendo e mi mutilavo di me…».

(Di bestia in bestia, pag. 86)

«Guardavo rapito la mia compagna di banco, scilice in tralice: contenendo in sé ogni futura epopea quel guardo era già persuasione di destino, ma inoltrandomi nel tempo (noi postumi a noi) non potevo evitare di fingermi conversazioni tremende, quaj toglieano a quel destino il suo senso. “Considera“, le dicevo: “un capriccio d’oscur secretario ed ecco il mio nome in altra classe inscritto per sempre: o pur teco io inscritto, nel primo giorno non trovo a la mane il mio par preferito di calze (le turchesi io intendo: tu’l sai), e m’indugio alla cerca, e ne chieggio la madre, e si fruga conserti undiquamente per casa: riescono alfine le calze, e il puerulo passo mi studio affrettare alla scola: ma vi giungo in ritardo, ed occupato d’altrui è quel banco ove posai trepidando al tuo fianco, e l’occhiate furtive ne dicean eloquenti, e le galeotte matite imprestate e le gomme: ma son giunto in ritardo e quel banco è già sede d’un altro, di Ranziani poniamo, o del gracilino Vignola o di Bonfante che querulo ride: e mi seggo discosto, ad altre forme vicino, ad altra vita e destino, né di te mai più seppi o saprò, separati, per sempre, d’allora, da prima, ché la vita che vivi sono solo le infinite cui finito sei escluso, ed in te io vidi quel giorno soltanto le schiere di donne che tu in te stessa uccidevi, tiranna tu e vittima a un tempo e micidiale di te come tutti micidiali di noi, e se ora siam qui è come s’incontrano i morti nell’Ade…».
(Di bestia in bestia, pag. 88)

Ma quando l’amore si fa carne e assume concretezza avanzando nella vita sotto le spoglie di una donna vera, Emilia, ogni tentativo di Omsoc di separare l’amore sacro da quello profano per impedire al sacro di corrompersi risulta vano.

Nella storia, inoltre, il tema del doppio viene dal personaggio Asoc (anagramma di “Caos”), il gemello di Osmac che agisce secondo istinto naturale e che è privo di intelligenza: egli, infatti, è semplice come un bruto e somiglia ad un gigantesco bambino. Fra i due gemelli, però, il vero caos è quello eretto da Osmac, intelligenza catalogatrice ed accumulatrice, nel mondo labirintico ed esclusivo cui ha dato vita; mentre Asoc si presenta come Mister Hyde, appartenente alla famiglia delle bestie.

Un piccolo gioiello, dunque, quello che Mari ha realizzato e revisionato in una seconda versione (edita nel 2013), in cui è condensata la concezione stessa che l’autore ha della letteratura: un corpo a corpo con la vita, un modello quasi impossibile da ricalcare e che ogni lettore appassionato può solo sognare di vivere. Con l’amara consapevolezza che la vita è tutto, fuorché letteratura.

Nicole Erbetti

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