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«I can’t breathe»: una storia potente (che forse può cambiare gli Stati Uniti)

Siamo a Minneapolis. Alle 20:20 del 25 maggio 2020 George Floyd, afroamericano 46enne di Houston, è – durante un fermo di polizia – ammanettato e immobilizzato a terra. Uno degli agenti, Derek Chauvin, pone il ginocchio sul suo collo e lo trattiene per 8 minuti e 46 secondi, nonostante le implorazioni di Floyd che, con un filo di voce, afferma di non riuscire a respirare, quel «I can’t breathe» che è diventato il simbolo del movimento Black Lives Matter.

L’uomo era stato fermato dalla polizia dopo la segnalazione di un tabaccaio che sospettava che Floyd gli avesse dato una banconota contraffatta. Alle 20.22 gli agenti chiamano un’ambulanza, i cui operatori una volta arrivati sul posto convincono Chauvin a liberare il collo di Floyd, che morirà poco dopo all’Hennepin County Medical Center. L’autopsia dirà che è morto per asfissia. Nel frattempo, alcuni passanti registrano un video su quello che accade. Un filmato che gira di telefono in telefono, di media in media e diventa virale, nella sua drammaticità. Dopo quelle immagini così violente, l’indignazione e la mobilitazione della società civile è talmente forte che i 4 agenti vengono licenziati dalla polizia di Minneapolis. Chauvin viene arrestato il 29 maggio, gli altri tre poliziotti saranno invece arrestati il 2 giugno.

L’inizio delle proteste

Le proteste per avere giustizia sono inizialmente pacifiche, ma dilagano presto in rivolta non solo a Minneapolis, ma anche in molte altre città degli USA. I saccheggi e le aggressioni diventano tali che il governatore dello Stato, Tim Walz, chiede l’intervento della guardia nazionale. Donald Trump nel frattempo twitta sul suo profilo che «quando iniziano i saccheggi si inizia a sparare» (tweet poi oscurato dal social). I saccheggi dei negozi e le violenze si moltiplicano in tutto il paese, così come le cariche della polizia contro manifestanti e si arriva, il 29 maggio, all’incendio del commissariato di Minneapolis. La “questione Floyd” diventa incontrollabile: mentre si hanno 23 Stati che richiedono la guardia nazionale e 40 città in coprifuoco, si moltiplicano anche le aggressioni ai giornalisti da ambo le parti e iniziano ad esserci le prime morti. A St. Louis, nel Missouri, i manifestanti, principalmente affiliati al movimento Black Lives Matter, bloccano la interstate 44 e un camion di FedEx investe un manifestante. Proteste simili si verificano anche in altre città degli Stati Uniti.  

I rivoltosi ce l’hanno con la polizia, che risponde anche con gas lacrimogeni e proiettili di gomma. Gli schemi saltano, i soprusi aumentano: da un lato c’è il vandalismo iconoclasta contro statue di personaggi storici reputati razzisti, dall’altro ci sono i poliziotti che il 4 giugno hanno gettato a terra un pacifico manifestante 75enne senza subire ripercussioni.

Oggi la situazione sembra essersi raffreddata e le proteste sono ormai quasi del tutto pacifiche, tanto che il Presidente Donald Trump ha deciso, dal bunker in cui si è rifugiato, di ritirare la guardia nazionale a Washington. L’opinione pubblica americana e non, comunque, sembra schierarsi dalla parte del movimento Black Lives Matter.

All’origine della rivolta Black Lives Matter

Se pensiamo che queste rivolte siano qualcosa di inedito nella società americana, allora siamo in errore. L’intera storia americana è attraversata da contraddizioni a sfondo etnico che ancora oggi risultato irrisolte, soprattutto in alcuni strati della società. Potremmo scrivere un trattato per raccontare il rapporto tra bianchi, neri e abuso di potere nelle città degli USA, difficile e a tratti abominevole, addirittura prima della formazione degli Stati Uniti come li conosciamo oggi. Non vogliamo entrare eccessivamente nel dettaglio, non è questo l’obiettivo dell’articolo, ma ci sembra giusto provare a contestualizzare i drammatici fatti del 2020 con un occhio più ampio, partendo almeno dalla seconda metà del XX secolo.

I frequenti casi di brutalità e uso della forza da parte delle forze dell’ordine statunitensi hanno indotto a lungo il Movimento per i diritti civili e vari altri attivisti a protestare contro la mancanza di responsabilità della polizia negli “incidenti” che presupponevano l’uso di una forza eccessiva. La sommossa nel 1965 a Watts, un distretto di Los Angeles, fu una delle prime risposte all’abuso di potere della polizia. La rivolta, scoppiata a seguito dell’arresto di un cittadino afroamericano, portò alla morte di 34 persone, a cui si aggiunsero 1.032 feriti e 3.952 arresti. Nel 1992 i problemi a Los Angeles tornano a sfociare in una rivolta, che fu ancora più aggressiva di quella predente. Durante i disordini furono uccise 63 persone, vi furono 2.383 feriti e più di 12.000 arresti. La protesta era una risposta al pestaggio violento nei confronti di Rodney King, un tassista afroamericano accusato di non essersi fermato ad un posto di blocco e quindi massacrato di botte da 5 agenti in servizio. King era disarmato. Le immagini della violenza furono riprese dalla telecamera di un uomo, George Holliday, che diede poi il materiale video a network televisivi e giornali.

Negli ultimi anni il Movimento per i diritti civili si è battuto anche per il caso Michael Brown, a Ferguson nel Missouri, sobborgo di Saint Louis. Ma anche per la morte di Freddie Gray a Baltimora nel 2015, o a quella di Philando Castile o di Justine Damond o Eric Garner a New York nel 2014, che, analogamente a George Floyd, dichiarò: «Non riesco a respirare». 

La potenza del digitale

L’episodio dell’omicidio di George Floyd ha suscitato sdegno e forme di protesta non solo negli Stati Uniti, ma anche in tutto il continente europeo. Ciò non sarebbe stato possibile senza la diffusione del video nel web. Questo evento, nella sua drammaticità, è una grandiosa dimostrazione di quanto il digitale, se usato bene, sia una straordinaria risorsa per la solidarietà e per la condivisione, oltre che per la diffusione di notizie informazioni che altrimenti resterebbero celate, invisibili e presto dimenticate. Senza i dispositivi tecnologici e le reti di diffusione di interazione digitali, episodi come quello di Floyd resterebbero ignoti alla maggior parte della popolazione o sarebbero una notizia di passaggio in televisione o su un quotidiano. Lo stesso movimento attivista Black Lives Matter è nato nel 2012 proprio dagli hashtag che comparivano sui social come forma di protesta indignazione verso violenze e omicidi ai danni di persone di colore. È un movimento nato sul web che è rimasto attivo diventando un sito internet di quotidiana denuncia.

Risulta evidente, anche da casi come quello del movimento Black Lives Matter, che la soluzione non è boicottare il digitale, ma integrarne l’attività con il mondo esterno. Non è questo un esempio emblematico dell’effetto benefico e progressista della diffusione della condivisione di informazioni dal digitale? Non è un’occasione per comprendere che ciò che più conta nella odierna Digital Life è trovare il modo giusto con cui interagire con il digitale? Il digitale ha dimostrato pienamente di essere in questa occasione il vettore non solo della solidarietà collettiva, ma dell’attivismo da piazza con cui si crea quella coesione utile a cambiare le cose. 

Cosa sta succedendo in Italia?

Il caso di George Floyd e della sua morte avvenuta a Minneapolis è arrivato anche in Italia, dove, nei giorni scorsi si sono succedute numerose manifestazioni di solidarietà. Tali raduni hanno affievolito i riflettori sul tema della pandemia da coronavirus che ha fatto da padrone sui media per tutti i mesi primaverili. Quello del razzismo è un tema virale, proprio come una pandemia. Dopotutto traslando il filosofo Thomas Hobbes, homo homini virus”, perché gli esseri umani non sono soltanto capaci di infettarsi malattie, ma anche idee. Il razzismo, e tutto ciò che è ad esso collegato, riguarda ognuno di noi e il suo rifiuto o, nella peggiore delle ipotesi, il suo accoglimento, è nel nostro linguaggio comune. 

Per questo, anche in Italia, si sono succedute manifestazioni di solidarietà nei confronti di Floyd, della sua famiglia e di tutti coloro che ancora oggi subiscono atti di razzismo per via della loro sacra “diversità”. Così da Torino a Bologna, da Roma a Milano, moltissime persone si sono riunite al grido di «I can’t breathe», sottolineando che la vita dei neri conta, perché ha significato esattamente come quella dei bianchi. E anche dicendo che è necessario denunciare un retaggio razzista che percuote il corpo “nero” dai tempi della tratta degli schiavi di epoca moderna. 

Black Lives Matter: un movimento che cambierà gli USA?

Che sia l’inizio di una svolta? Forse. Per ora le proteste continuano e in diversi Stati oltreoceano si inizia discute una possibile riforma della polizia statunitense. Per far sì che nessuno possa più morire in questo modo. E c’è dell’altro: alle porte ci sono le elezioni presidenziali, che questa volta contrappongono non solo due visioni politiche differenti, ma due modi opposti di fare politica e concepire il mondo. Se il voto risentirà anche dei tumulti di questi giorni lo scopriremo a novembre.

Articolo a cura di Antonella D’Eri Viesti, Lorenzo Pampanini, Andrea Potossi, Agnese Zappalà.


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Redazione

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