Secondo Edmund Husserl, il compito della fenomenologia filosofica è quello non di “spiegare” qualcosa, rintracciandone le cause e anatomizzandone la composizione interna, ma piuttosto “descrivere” come quel qualcosa si dia alla coscienza, come si manifesti. Ciò implica la necessità di ricavare anzitutto le modalità attraverso le quali la coscienza “accede” ad un certo contenuto oggettivo, mostrando, da un lato, le strutture intenzionali dell’ego (“come” noi, a prescindere da ciò che intenzioniamo, ce ne relazioniamo), dall’altro, la forma stessa dell’oggetto al quale si va incontro. Il rigore e la pretesa asetticità dell’analisi fenomenologica ne assicurano l’imparzialità morale. Non c’è giudizio di valore su ciò che si descrive, ma solo il tentativo di restituirne la complessità interna ed esterna.
Ora, che cos’è un tormentone se considerato dal punto di vista fenomenologico? Che cos’è un tormentone se studiato non a partire dal dato sociologico, ma da quello, per usare le parole husserliane, eidetico? La definizione che ne proponiamo è la seguente: il tormentone è un oggetto (in senso ampio) che da autonomo, attraverso un processo di filtraggio e semplificazione, diventa (finitamente) ripetibile. Il tormentone trova la sua essenza nel fatto 1) di, pur mantenendo un contatto con il suo contesto d’origine, modellarsi in modo tale da poterne fuoriuscire; 2) di essere potenzialmente ripetibile per un numero molto esteso di volte, ma non infinito. Il tormentone è qualunque cosa che, in virtù di una sua caratteristica intrinseca, nasce destinato a perdere il suo potere di essere ripetuto.
Si è detto che il tormentone è finitamente, e non infinitamente, ripetibile – fatto, quest’ultimo, che si comprende più adeguatamente ricorrendo ad un controesempio. Secondo Italo Calvino, è noto, un classico è «un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Ciò che distingue il tormentone dal classico, quindi, è proprio la forma della ripetizione. Mentre il classico – così si dice – ha vita eterna, è cioè qualcosa che non esaurisce mai il suo potere di coinvolgimento emotivo ed intellettuale, il tormentone è destinato a perdere e progressivamente vedere indebolita la sua forma taumaturgica, fino a disperdersi. Ciò non significa, tuttavia, che anche i classici non possano aver avuto un passato da tormentoni.
Prendiamo ad esempio la Divina Commedia dantesca e abbozziamone un confronto con il più recente Mille di Achille Lauro, Orietta Berti e Fedez. Abbiamo da un lato un classico indiscusso – aggiungiamo qui una postilla a Calvino: “classico” è ciò che è tale proprio in virtù del suo essere “indiscusso” –, parte del nostro patrimonio culturale, della nostra formazione, qualcosa che ha un ruolo funzionale e fondazionale nel modo in cui guardiamo il mondo, e dall’altro un tormentone, anch’esso indiscusso, ripetuto un numero elevato di volte, ma finito, nel corso dell’estate 2021.
Anche Dante, ce lo racconta Boccaccio, è stato un tormentone: sappiamo che nel 1300, a Firenze, la Divina Commedia veniva recitata dai calzolai e dai fabbri per le strade della città, intenti nel loro lavoro. Il turista di allora, passeggiando per le vie fiorentine, avrebbe forse potuto ascoltare qualcuno declamare il XX dell’Inferno, o il XXXIII del Paradiso. Anche Dante, quindi, seguendo la nostra definizione, ha partecipato dell’essenza del tormentone, in virtù del numero di volte in cui – si può immaginare – ne si sono ripetuti i versi. Eppure, proprio in quanto tormentone, tale fenomeno si è esaurito, incanalandosi, grazie al filtraggio del tempo, entro forme “istituzionalizzate” di ripetizione. Questo passaggio, da una ripetizione “spontanea” ad una “istituzionalizzata”, da una ripetizione che avviene senza prosieguo o finalità ad una che ricopre una funzione – esistenziale, culturale, emotiva – segna lo scart…