Notte e filosofia sono legate da un rapporto di reciprocità strettissimo. Se pensiamo alla notte come quel luogo e quel tempo in cui la luce si assenta, il Sole si nasconde, gli uomini e le donne si ritirano – ebbene, la notte è per eccellenza il controcanto della filosofia.
Ciò è iscritto nel nome stesso di questo particolare tipo di sapere. Filosofia è infatti composto da sophia, infatti – che significa sapienza, saggezza – rimanda a phos, «luce», e se philia significa «amore sollecito», «cura», filosofia in definitiva vuol dire «cura per la luce che dischiara». O, più arditamente, potremmo dire «amore del giorno».
La filosofia illumina, rischiara, rende manifesto, lascia scorgere le cose nella loro presenza. Ritarda la notte – che è (quasi) sempre vista come un polo negativo. È celebre il mito platonico della caverna, nel quale Platone immagina la progressiva ascensione al sapere a partire dal regno della non-conoscenza. Chi si trova vincolato a contemplare esclusivamente le cose di questo mondo vive in una sorta di caverna che impedisce alla luce del Sole di illuminare l’interno. La sua esistenza è quella di una notte perpetua, dove regna l’ombra, l’illusione, l’apparenza. Solo il filosofo, conoscitore della luce, può salvarlo, ma a costo della vita.
Nel Medioevo – che gli Illuministi pensano, com’è noto, come una lunga notte – si potrebbe dire che questo paradigma venga rovesciato. Dio è la notte. O meglio, implica una conoscenza che deve poter essere conoscenza di qualcosa di non visibile, né dicibile – che dev’essere, sostanzialmente, silenzio. La «notte mistica» è il momento in cui il sapere si rovescia nel suo contrario, nel non-sapere, disperdendosi nell’indifferenziato – nel «Tutto è uno» – rappresentato da Dio. Esso non si può in alcun modo rappresentare, ma solo alludervi per accenni, come quando tenta di dire una parola tenendo le labbra chiuse (la parola «mistico» rimanda esattamente a questo sforzo di dire qualcosa tenendo le labbra chiuse).
È celebre la metafora che invece utilizza …