Gaio Giulio Cesare, pur non essendo, come molti erroneamente pensano, il primo Imperatore di Roma, è stato una personalità fondamentale per la storia, ma anche per la letteratura romana. Per primo ha gettato le basi per il passaggio da una forma repubblicana a quella imperiale, il che genera la famosa confusione, oltre al fatto che il suo nome fu attribuito come titolo a tutti gli imperatori.
Cesare raggiunse la fama a forza di donare, soccorrere e perdonare, Catone con il non concedere mai nulla a nessuno. L’uno, il rifugio dei poveri, l’altro, il flagello dei malvagi: di uno era lodata la condiscendenza, dell’altro la fermezza. Giulio Cesare s’era proposto di lavorare, vigilare e, per tener dietro agli interessi dei suoi amici, trascurare i propri e non rifiutare mai nulla che valesse la pena di regalare. Ambiva a un comando importante, a un esercito, a una guerra nuova, nella quale potesse emergere il suo valore. Catone era incline alla modestia, al decoro e, soprattutto, all’austerità. Non gareggiava di lusso con i ricchi, d’influenze con gli intriganti, ma di valore con il prode, di riserbo con il modesto e d’integrità con l’onesto. Preferiva essere virtuoso che parerlo e, di questo passo, quanto meno inseguiva la gloria tanto più essa lo seguiva.
Sallustio confronta Cesare e Catone nel De Catilinae Coniuratione
Il valore di questo grande condottiero, che percorse tutte le tappe del cursus honorum (quindi della carriera politica) fino a diventare dictator pertetuus (che non ha la nostra valenza moderna prettamente negativa), non si mostrò solamente sul campo di battaglia o nell’ambito politico con azioni più o meno condivisibili, ma anche nella scrittura. Cesare sperimentò, infatti, diversi generi storiografici e le sue opere sono tra le testimonianze più importanti che abbiamo della sua epoca.

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Il genere del commentario
Come fin da bambini, grazie alle avventure di Asterix, abbiamo sentito dire, Giulio Cesare conquistò la Gallia e narrò di questa sua avventura nel De bello gallico. Quest’opera, oltre a costituire un’importante testimonianza storica, si inserisce in una tradizione storiografica che è quella dei commentarii. Si trattava in generale di appunti utili tenuti da magistrati o uomini politici, come una sorta di diario. Cicerone stesso ne compose diversi, ma senza mai ordinarli in maniera coerente come farà, invece, Cesare, che compone i suoi commentari in terza persona, usando tecniche e toni tipici della storiografia. Il commentarius di Cesare non suona, quindi, come una personale raccolta di appunti, bensì come una narrazione minuziosa dei fatti, seppur chiaramente essa non possa mai essere oggettiva. In tal senso, è ancora più forte la propaganda politica nel secondo commentario dell’autore, il De bello civili, in cui Giulio Cesare offre una satira politica nei confronti degli avversari.
In realtà, la bravura sia scrittoria che politica di Cesare si mostra in entrambe le opere per il fatto che, pur essendoci ovvie inesattezze, queste non sono mai evidenti, ma costituite da omissioni o modifiche fatte ad hoc in maniera molto precisa e coerente. Un esempio emblematico è il racconto della fuga di Pompeo, a cui Plutarco nella sua Vita di Cesare dedica davvero poco spazio, mentre Giulio Cesare nel suo commentario descrive con minuzia di particolari per sottolineare la sua viltà. Non per questo, tuttavia, l’autore pecca di immodestia, in quanto sicuramente valorizza le proprie capacità militari (sottolineando comunque il ruolo importante dei romani come uniti e compatti nel voler intraprendere le guerre per proteggere la res publica), ma non manca di precisare il valore dei nemici. Ciò ovviamente avviene sia per mostrare rispetto nei loro confronti, sia perché va da sé che se vengono battuti avversari forti, naturalmente l’impresa è ancora di più degna di nota. Cesare sottolinea anche come le sue conquiste siano dovute anche alla fortuna: naturalmente esistono eventi che sfuggono al controllo dell’uomo, per quanto egli si presenti sempre come forte e razionale, e l’autore ne è consapevole.
Il valore della clementia
La clemenza, che vedremo essere caratteristica peculiare attribuita a Cesare, è un concetto fondamentale per la cultura romana. Essa ha una funzione ideologica ed un’utilità pratica, come definito da Seneca nella sua opera dal titolo proprio De Clementia. In essa, egli suggerisce a Nerone le caratteristiche di un buon uomo di potere, di cui la clemenza deve sicuramente far parte, insieme ad altre virtù che indicano mitezza, gentilezza e mansuetudine. Infatti, chi è al potere deve essere in grado di mantenere la calma e non lasciarsi andare all’ira, alla crudeltà o all’istinto.
Come afferma Cicerone nel De Officiis, la grande forza di Roma è data proprio dalla clemenza, che ha permesso di costruire alleati tra i popoli vinti (a cui veniva concessa la cittadinanza romana). Si tratta di uno strumento politico, in quanto comportandosi benevolmente anche con gli sconfitti, non si sarà oggetto di vendetta, ma di rispetto. Lo stesso Augusto, il primo vero Imperatore di Roma, su esempio di Giulio Cesare cercherà, seppur nella battaglia, di rispettare i propri avversari.

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La clementia Caesaris
Cicerone definisce la clemenza di Cesare come la capacità del console di non infierire sugli sconfitti e non provare odio per i nemici. Egli era in grado di vincere l’ira e agire con moderazione, non pensando mai ad una vendetta. Naturalmente, quella di Cesare non è solamente una virtù d’animo, ma soprattutto una scelta politica: sapeva bene che dopo i massacri provocati da Silla, ai romani non serviva un leader sanguinario, ma qualcuno che sapesse opporre a questo atteggiamento proprio la clemenza. In questo senso essa si traduce come qualcosa di puramente razionale: clemenza non significa assenza di guerre, ma assenza di mosse istintive e di un’ira funesta e pericolosa.
Anche la guerra civile, come riporta lo stesso Cesare nel commentario, è intrapresa con riflessione e razionalità e, comunque, con un grande rispetto per gli anniversari. Infatti, l’autore non manca di mettere in evidenza il valore del nemico, la sua forza, cosa che spinge, come attestano anche altri storici, i suoi soldati a criticarlo, poiché durante la guerra civile spesso Cesare non approfitta di momenti propizi per attaccare. Concede, inoltre, il tempo necessario ai nemici di seppellire i propri cari, cosa non scontata.
La scomparsa della metus hostilis e la guerra civile
Per di più, Gulio Cesare mostra nel suo commentario sulla guerra civile il disprezzo per una guerra tra fratelli che, seppur necessaria, è innaturale in quanto è tra persone che si conoscono, che appartengono alla stessa civiltà. Sallustio stesso indicherà nella scomparsa della metus hostilis (paura del nemico) la causa del malcostume politico a Roma, in quanto si comincerà a scontrarsi proprio internamente in guerre civili; finché Roma ebbe nemici esterni rimase molto più compatta.
Del resto da qualche anno a Roma era invalso l’uso delle lotte tra partiti e gruppi di potere, dalle quali derivò il malcostume. Vi contribuirono la pace e il benessere, al quale gli uomini tengono più d’ogni altra cosa. Laddove, prima della distruzione di Cartagine, popolo e Senato si dividevano il governo della Repubblica con misura e moderazione e tra i cittadini non esisteva competizione di gloria né di potere, la paura dei nemici teneva il popolo sul retto cammino. Quando quel terrore cadde dagli animi, prosperarono i vizi che il benessere favorisce, cioè la sfrenatezza e l’arroganza.
Sallustio, Bellum Iugurthinum
Naturalmente, per Cesare la colpa di questa guerra civile fu, nonostante tutto, anche di Pompeo e dei suoi, che hanno impedito una forma di conciliazione, mentre lui, come sottolinea nel commentario, avrebbe voluto evitare lo scontro frontale e porlo sul piano politico.
Non è meno degno di un generale vincere con un piano intelligente piuttosto che con la spada.
Cesare, De bello civili, 1,72
Quali che fossero le reali intenzioni di Cesare, a priori egli è portavoce di uno dei principi fondamentali e fondanti della cultura romana. Eppure, la clemenza è da molti concepita come la sua principale debolezza. Secondo Cicerone, la clementia Caesaris è stata, per quanto lodevole, anche una delle cause della sua morte.

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Il ritratto di Lucano: Cesare affamato di potere
Nonostante secondo diversi autori Cesare sia una figura positiva, la cui morte è stata dovuta, come illustra Antonio La Penna, al tradimento di quella clemenza, una voce fuori dal coro è Lucano. All’interno della sua Pharsalia, ha infatti descritto Giulio Cesare come una persona senza scrupoli, affamato di potere che pur di ottenere ciò che vuole è in grado di compiere qualsiasi nefandezza. Emblematico della caratterizzazione che Lucano fa di Cesare è la descrizione del momento in cui attraversa il Rubicone:
poi, dopo essersi eccitato sferzandosi con la fiera coda e avere rizzata la criniera, spalanca le fauci e freme con ruggiti gravi, e, anche se ha conficcata il giavellotto lanciato dallo svelto Mauro o si sente nel gonfio petto le lance, incurante di tante ferite, si scaglia contro il ferro.
Non solo, Cesare è anche irascibile, non nutre affatto rispetto nei confronti degli avversari e nemmeno per la patria. A lui si contrappone Pompeo che invece è un uomo giusto, ma purtroppo abbandonato dalla Fortuna.
Cesare nella Pharsalia non è clemente. Ha distrutto la repubblica e non vede niente davanti a sé se non il desiderio di potere. È chiaro che il punto di vista di Lucano serve a esprimere il proprio pessimismo storico e a mostrare il dramma di un mondo cambiato e sconvolto per sempre, così come è naturale pensare che il potere a Cesare interessasse ben più della clemenza, la quale, abbiamo visto, fu soprattutto un mezzo politico e di prudenza più che di fibra morale.
Egli ebbe ingegno, equilibrio, memoria, cultura, attività, prontezza, diligenza. In guerra aveva compiuto gesta grandi, anche se fatali per lo stato. Non aveva avuto per molti anni altra ambizione che il potere e, con grandi fatiche e pericoli, l’aveva realizzata. La moltitudine ignorante se l’era conquistata con doni, costruzioni ed elargizioni di viveri e banchetti. I suoi li aveva acquistati con premi, gli avversari con manifestazioni di clemenza: aveva dato ad una città, ch’era stata libera, l’abitudine di servire, in parte per timore e in parte per rassegnazione.
Cicerone su Cesare
Certamente, quindi, Giulio Cesare sapeva benissimo essere anche crudele quando serviva, come osserva il latinista Antonio La Penna:
Essa [la clemenza, ndr.] innalza, del resto, anche il carattere di Cesare, perché vuol dire, almeno, che in lui la prudenza politica soffocò i bassi rancori, che in simili circostanze nascono e a cui egli avrebbe potuto dare sfogo. Piuttosto ci si può domandare fino a che punto questa clemenza fu politicamente giusta ed efficace: le idi di marzo dimostrarono che la rivoluzione cesariana non era del tutto matura e che richiedeva ancora molto sangue e un’altra linea politica, ma furono anche il fallimento della clemenza; il perdono, anche in un Cicerone che, nelle orazioni cesariane, aveva sciolto inni alla clemenza, anche in quelli che Cesare credeva gli amici più fedeli, non aveva placato la lotta politica né spento alcun odio.
da Antonio La Penna, «Tendenze e arte», del Bellum civile in Aspetti del pensiero storico latino.
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