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Che ci importa del Sudan?

8 minuti di lettura

È una storia difficile quella della protesta in Sudan: più si scava, più c’è da scavare. È una storia dalle radici geopolitiche difficili da ripercorrere, ma impossibili da ignorare se si vuole capire che cosa sta succedendo in questi ultimi mesi nello stato africano. È una storia che va raccontata, però. Per conoscerla, in primo luogo. E per capire perché quel disperato (ma energico) tentativo di democrazia a cui abbiamo timidamente assistito, ad oggi, appare sempre più lontano.

Quanto ne sappiamo del Sudan?

Poco, in linea di massima. Il Sudan, ufficialmente Repubblica del Sudan, è uno Stato arabo-africano. Confina con l’Egitto a nord, col mar Rosso a nord-est, con l’Eritrea e l’Etiopia ad est, con il Sudan del Sud (che ottenne l’indipendenza dal Sudan nel 2011) a sud, con la Repubblica Centrafricana a sud-ovest, con il Ciad a ovest e con la Libia a nord-ovest. Il fiume Nilo lo attraversa, dando vita a due aree, quella occidentale e quella orientale. Il Nilo bagna anche Khartum, la capitale politica ed economica dello stato.
Membro delle Nazioni Unite, il Sudan aderisce anche all’Unione Africana, alla Lega Araba, all’organizzazione per la cooperazione islamica e al movimento dei paesi non allineati. La grande maggioranza della popolazione oggi è di religione islamica, ma ci sono forti concentrazioni di cristiani e di animisti a sud.

Sudan

Ex protettorato britannico, dal 1955 è uno stato indipendente. L’instabilità politica del Sudan di oggi ha radici profonde: fin dalla sua creazione, la politica interna fu dominata da regimi militari, spesso violenti e repressivi, che portarono a conflitti interni e guerre civili. Nel 1989, dopo un colpo di stato, il generale Omar Al-Bashir, si proclamò presidente del Sudan, attuando per oltre 30 anni politiche oppressive e punitive nei confronti dei dissidenti.

Alle origini delle proteste in Sudan

A dicembre iniziò a circolare online una foto poi destinata a fare la storia. Una giovane attivista sudanese si ergeva su una piazza colma di gente: era la voce dei tanti che, dopo anni di soprusi e violenze, sognavano libertà e democrazia partecipativa. Il suo nome, Alaa Salah, sarebbe presto arrivato in occidente e identificato come il volto di quella rivoluzionaria protesta che, improvvisamente, era sotto gli occhi di tutti.

Sudan

Un vestito bianco, la purezza, la forza, gli scatti con gli smartphone e la diffusione virale delle immagini: gli occhi del mondo sono puntati sui manifestanti, con l’emozione e quel pizzico di speranza tipico di chi scorge una rivoluzione in arrivo. Nel giro di pochi mesi si sarebbe verificata una svolta storica per il paese: l’arresto del presidente Al-Bashir e la promessa della formazione di un consiglio militare di transizione, in carica per due anni con l’obiettivo di aprire una fase di nuova democrazia.

Cronache di un massacro

Quella piazza speranzosa sembra essere lontanissima oggi. Dopo le dimissioni di Al-Bashir lo scorso 11 aprile, la situazione in Sudan è precipitata: la cronaca internazionale se ne occupa con attenzione, ma sottile prudenza, perché è sempre più difficile capire quello che sta succedendo. Internet, il mezzo che aveva portato la protesta sugli schermi di tutto il mondo, è stato oscurato e le poche voci che riescono a superare il blackout ordinato dal governo, denunciano un Sudan devastato dalla violenza, dalle uccisioni, dagli stupri.

Sudan

3 giugno. L’esercito del Sudan attacca un sit-in dei manifestanti istituito dopo la caduta di Al-Bashir, che chiedeva il trasferimento del potere dai militari ai civili. È la svolta drammatica: la BBC segnala che sono almeno 13 i morti e decine i feriti. Alcuni testimoni raccontano ad Al Jazeera che sono stati usati conto i civili gas lacrimogeni e che i militari hanno bloccato le vie di uscita prima degli inizi degli spari.

Il Sudan e le proteste sui social

«Sparano alle persone, alle case, stuprano donne, bruciano corpi e li buttano nel Nilo come vermi, tormentano le persone, li costringono a bere acqua putrida, terrorizzano le strade e impediscono le regolari preghiere. C’è un blackout internet, per favore, condividete».

Sono le parole di Rihanna, pop-star di fama mondiale, che ha condiviso, tramite un’instagram stories, una preghiera nei confronti della popolazione sudanese. Negli stessi giorni George Clooney ha pubblicato un pezzo sulla nota rivista geo-politica Politico, segnalando le gravi condizioni in cui verte il Paese e chiedendo un intervento immediato del Congresso. Le loro parole, espresse sui social network o in piattaforme online, sono solo la punta di un iceberg molto più profondo, e fanno parte di una mobilitazione social mondiale.

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Dopo le violenze del 3 giugno, l’attivista sudanese-americana Remaz Mahgoub Khalaleyal ha lanciato su Instagram l’hashtag #blueforsudan, invitando tutti gli utenti a diffondere un’immagine blu per esprimere solidarietà ai manifestanti. Il colore è stato scelto per onorare Mohammed Mattar, ingegnere 26enne sudanese, tra le vittime del massacro. Il “Blu Sudan” in pochi giorni ha invaso la rete, tanto da diventare la nuova immagine profilo di Ilhan Omar, politica somala naturalizzata statunitense, dal 2019 membro della Camera dei Rappresentanti per lo Stato del Minnesota. La Omar è, insieme a Rashida Tlaib, tra le prime due donne di religione islamica a essere eletta nella storia al Congresso statunitense. Ha aderito alla protesta social #blueforsudan anche Greta Thunberg, l’attivista svedese classe 2003 fondatrice di Skolstrejk för klimatet (“sciopero scolastico per il clima”).

E adesso?

Adesso i militari hanno preso il sopravvento nel paese. Il Post incorona il generale Mohamed Hamdan Dagalo, più noto con il soprannome Hemedti, il “nuovo uomo più potente del Sudan”. Hemedti, esponente militare di spicco in Sudan è – tra le altre cose – accusato di essere coinvolto in alcune delle più gravi violenze compiute nel paese negli ultimi 15 anni.

La Primavera Araba 2.0 tanto annunciata si è avverata, ma forse solo nei suoi aspetti più drammatici: gli elementi di ingenuità e le aspettative che erano state riposte nel cambiamento politico sono, a oggi, sempre più lontane. Oppure no: perché la storia ci insegna che, dopo una tempesta, tornare indietro – all’antico regime, se volessimo usare un’espressione che più ci appartiene – non è quasi mai possibile. Teniamo gli occhi puntati sul Sudan.

 

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Agnese Zappalà

Classe 1993. Ho studiato musica classica, storia e scienze politiche. Oggi sono giornalista pubblicista a Monza. Vicedirettrice di Frammenti Rivista. Aspirante Nora Ephron.

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