«Te la sei cercata» e «com’eri vestita?» sono frasi che troppo spesso seguono il racconto di uno stupro. Come se le vittime, colpevoli, irretissero l’aggressore con abiti succinti e pose osé. Si tratta di un pensiero retrogrado ma ancora piuttosto comune, taciuto ma spesso pensato per motivare in modo ingenuo un atto tanto cruento quanto la violenza sessuale. «Un motivo ci sarà – si pensa – non sarà stata forse la vittima a provocare?»
La mostra Com’eri vestita? (What were you wearing?) alla Casa dei diritti di Milano dimostra quanto questo pregiudizio sia infondato. L’esposizione raccoglie i vestiti che le ragazze vittime di violenza sessuale indossavano nel momento dello stupro. La mostra, di grande impatto, rompe in modo efficace lo stereotipo della donna che «se la va a cercare», che attrae e seduce per poi incolpare l’aggressore. Non troviamo infatti vestii succinti, provocanti, disinibiti, ma pigiami, jeans, tute, un banale costume da bagno come se ne vedono tanti in spiaggia. I vestiti, già efficaci nella loro semplicità, sono accompagnati da brevissimi racconti dove le donne ricordano l’esperienza subita.
L’esposizione è stata ideata nel 2013 da Mary Wyandt-Hiebert, docente della University of Arkansas, e da Jen Brockman, direttrice del Sexual Assault Prevention Center presso la University of Kansas, ed è attualmente in Italia, a Milano, dove è stata curata dal Centro antiviolenza Cerchi d’Acqua. In alcuni casi, i vestiti sono autentici; in altri, sono stati realizzati seguendo le indicazioni delle vittime e i loro ricordi. In ogni caso, lo scopo della mostra è quello di far riflettere su una questione spinosa come la violenza sessuale, sottolineando il banale ma fondamentale concetto che non è la vittima a cercarsela, non è un particolare vestiario a generare la violenza.
La mostra itinerante sarà a Milano fino al 29 marzo.