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sessualizzazione corpo nero

Dalla sessualizzazione del corpo nero al black feminism

dalla newsletter n. 36 - febbraio 2024

11 minuti di lettura

Il corpo nero, soprattutto femminile, è stato spesso vittima di iper-sessualizzazione dallo sguardo bianco occidentale. Questa pratica trova le sue radici in un retaggio coloniale di cui la nostra cultura sente ancora il peso quando ci rapportiamo con il tema del desiderio e della sessualità, e più in generale delle relazioni sociali.

Non si tratta solo di una questione di colonialismo statunitense, dove troviamo però degli esempi significativi dello sfruttamento fisico e sessuale del corpo nero. Le donne vittime di tratta venivano non solo schiavizzate nei campi, ma anche violentate dai padroni e al tempo stesso accusate di sedurre gli innocenti uomini bianchi, spesso mariti e padri di famiglia. Viceversa, gli schiavi neri erano percepiti come animali feroci e incontrollabili, potenziali stupratori delle donne bianche – in un triste paradosso dove a uscirne illeso è il vero violentatore. Ma queste brutalità non appartengono solo alla cultura d’oltreoceano. Si pensi a Saartjie “Sarah” Baartman, ragazza nera che a cavallo tra Settecento e Ottocento venne forzatamente esibita nei Freak Show europei per mettere in mostra le sue larghe natiche, al centro sia di derisioni, sia di perversioni da parte degli spettatori.

In Italia la situazione non è diversa. Se già nell’Ottocento la letteratura di viaggio descrive l’Africa secondo un immaginario irreale e vizioso, come un continente di passione incontrollata, un paradiso del sesso, l’esperienza coloniale accentua questa percezione e la rende parte di una cultura sempre più discriminante. Le colonie diventano un luogo di libertà e sperimentazione sessuale (per i colonizzatori, ovviamente) a scapito delle donne indigene colonizzate e violentate. Da questo processo si genere il fascino di una corporeità percepita come altra, e quindi come terra di sperimentazione e piacere. Un piacere che non è però consensuale, ma frutto di uno squilibrio di potere, basato sul controllo, sul dominio, sull’oggettificazione, sullo stupro come pratica di conquista bellica, sul corpo nero (e non solo) come “bottino di guerra”. Ricordiamo per esempio la pratica del madamato, ovvero l’uso di una donna indigena come moglie/serva temporanea da parte del colonizzatore, come nel caso di Indro Montanelli, che descriveva sua moglie/schiava dodicenne come un «animaletto docile», dandoci così una testimonianza in grado di smascherare un processo di oppressione su più livelli, legato al corpo, all’età, al genere, alla cultura. Questa situazione, forse, non si sarebbe venuta a creare con una bambina in Italia, ma nel caso specifico viene normalizzata e legittimata da quell’esotizzazione del corpo e della cultura che fa giustificare il giornalista con la motivazione che «lì sono già donne a quell’età».

L’esperienza coloniale italiana lascia nel suo immaginario una serie di concezioni discriminanti che fatichiamo a eliminare. Potremmo infatti pensarci lontani da un passato di sfruttamento dei corpi, ma il feticismo razziale – cioè la sessualizzazione di gruppi etnici diversi dal proprio – fa ancora spesso parte della nostra cultura. Travestito da un “sano” apprezzamento, il feticismo razziale, lungi dall’essere inclusivo, diventa un’esotizzazione del desiderio secondo delle caratteristiche rappresentative di un popolo (dalla pelle nera agli occhi a mandorla) basate su una visione stereotipata e limitante. Un desiderio quindi che si basa, più che su un piacere reciproco, sulla volontà inconscia di conquistare e “collezionare” qualcosa di diverso, di “altro”. Qualcosa e non qualcuno – se mai fosse positiva anche la collezione di persone – perché il soggetto diventa qui semplice oggetto di interesse, di piacere, senza considerare il suo punto…

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