Si sono svolte in ottobre le elezioni per i posti vacanti tra i quarantasette che compongono il Consiglio per i diritti umani dell’ONU e come ogni anno non sono mancate le polemiche sugli Stati che ne sono entrati a far parte. Quest’anno è la Cina a fare scandalo e l’indignazione attuale è forse spiegata dal fatto che la superpotenza è stata tristemente protagonista di questo 2020: i riflettori puntati sulla Repubblica Cinese a causa del COVID-19 hanno infatti evidenziato e diffuso le informazioni riguardo le dinamiche repressive in atto all’interno dei suoi confini.
L’elezione della Cina – accusata da alcuni stati di violare costantemente i diritti e le libertà fondamentali – ha suscitato particolare risentimento ed ha portato nuovamente a galla un dibattito che emerge con cadenza annuale: il Consiglio per i diritti umani ONU è una farsa intrisa di ipocrisia? Qual è la sua reale efficacia? Questi paesi autoritari come agiscono nelle dinamiche del Consiglio e c’è la possibilità che ostruiscano eventuali canali di mediazione e azione umanitaria?
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L’elezione di un paese governato da un regime repressivo tuttavia non è una novità: quest’anno tocca alla Cina, l’anno scorso era polemica sul Venezuela e nel 2018 sull’Egitto. Non è quindi il primo momento in cui la credibilità, insieme all’efficacia, del Consiglio per i diritti umani ONU vengono messi in discussione e l’accusa è sempre la medesima: quella dell’ipocrisia di un organo che è ormai corrotto dagli interessi nazionali degli stati membri a discapito della reale imparzialità sovranazionale.
Il principale Cicerone che fa del Consiglio il suo Catilina coincide con gli Stati Uniti, che nel 2018 hanno deciso di ritirarsi da esso. Le motivazioni della decisione della presidenza Trump furono esposte dall’ambasciatrice statunitense all’ONU Nikki Haley, secondo cui la politicizzazione del Consiglio avrebbe saturato i suoi meccanismi inficiandone completamente le possibilità d’azione. Così afferma l’ambasciatrice:
Uno dei nostri obiettivi principali era prevenire che i peggiori violatori dei diritti umani al mondo ottenessero l’elezione nel Consiglio per i diritti umani. Cosa è successo? L’anno scorso la Repubblica Democratica del Congo è stata eletta membro del Consiglio e le fosse comuni continuavano ad essere scoperte in Congo.
L’organismo inoltre si accanirebbe contro Israele, alleato storico degli USA, inserendo la discussione sulla sua occupazione dei territori palestinesi come settimo punto, permanente, nell’agenda delle sessioni ordinarie, e mostrerebbe invece estrema indulgenza verso altri paesi criminali come l’Iran, contro cui non emetterebbe risoluzioni.
Il focus delle polemiche, che ogni anno si fa incandescente sull’entrata nel Consiglio di questo o quello Stato, perde di vista il reale nodo problematico da considerare: non tanto quali specifici paesi debbano essere esclusi da questi meccanismi di sorveglianza sul rispetto dei diritti, quanto piuttosto come funzioni un organismo di questo genere e quali possibilità ci sono che paesi ostili ai suoi principi possano ostacolarlo dall’interno. Stilare una lista nera di “paesi cattivi” è estremamente ingenuo, perché suggerisce implicitamente che invece esistano “paesi buoni”, e la dicotomia buono-cattivo non è pertinente all’ambito della politica globale. Ciò risulta chiaro anche solo per il semplice fatto che i paesi che noi consideriamo liberali nascondono centinaia di violazioni tenute ben fuori dalla nostra visione attraverso ferrei paraocchi culturali: il sequestro di bambini dai genitori effettuato negli anni scorsi dalle autorità USA alla frontiera con il Messico e i campi libici finanziati dall’Italia sono solo due esempi del lato oscuro delle nostre familiari democrazie.
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Il Consiglio per i diritti umani è un organismo nato con il compito di supervisionare il rispetto dei diritti nei paesi ONU, al fine di portare a compimento i progressi degli stati membri nel loro processo di sviluppo umanitario e di informare l’opinione pubblica delle eventuali violazioni.
L’approccio che viene utilizzato per questi scopi, citando il secondo principio esposto nell’Institution-building package, è quello di «Essere un meccanismo cooperativo basato sull’informazione obiettiva ed affidabile e sul dialogo». L’Universal Periodic Review è il perfetto esempio di come le idee alla base del Consiglio si traducano in concreto. Quest’ultima è un meccanismo con cui ad ogni sessione ordinaria del Consiglio viene elaborata una panoramica sulle condizioni umanitarie in uno specifico Stato e sul progresso in cui si è impegnato. Questi parametri vengono analizzati sulla base dei report forniti dalle organizzazioni indipendenti come le ONG, dallo Stato preso in esame e dall’ufficio dell’Alto Commissariato per i diritti umani. È imprescindibile nel processo di considerazione e discussione di questi dati il costante confronto con lo Stato revisionato, che è ripetutamente preso in causa e a cui devono essere presentati precedentemente alla sessione di dialogo i temi e le domande riguardo a cui sarà tenuto a confrontarsi, per garantirgli la possibilità di un’adeguata preparazione.
È sulla base della comprensione di come il Consiglio per i diritti umani ONU lavora e dei criteri a cui fa riferimento che risulta assurda non l’ammissione di paesi dal tessuto socio-politico particolarmente drammatico in cui si svolgono vicende tragiche, quanto piuttosto anche solo l’ipotesi di una loro esclusione. Coloro che lavorano nel Consiglio infatti sottolineano come il fatto che uno Stato sia membro lo esponga ad una ancora più accurata indagine, ne faciliti il dialogo e quindi ne promuova l’integrazione al fine dello sviluppo.
Questo organismo non ha interesse nella messa alla gogna di paesi giudicati “malvagi” da parte di presunti esportatori di pace e libertà; il suo significato sta nel tentativo di cooperazione tra parti che sono tutte, inevitabilmente, in via di automiglioramento e che attraverso il confronto si spronano.
Ecco quindi che l’accusa di ipocrisia risulta semplicemente infondata: come si può colpevolizzare un organismo nato per dialogare perché effettivamente lascia uno spazio agli interlocutori che, proprio perché sono i più problematici, necessitano dell’azione più urgente?
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Per quanto riguarda l’accusa di inefficacia, è bene chiarire fin dal principio che l’ipotesi che un organismo sovranazionale di questo tipo possa agire in maniera coercitiva, imponendo una modifica delle politiche nazionali di uno stato che si concepisce come sovrano, è semplicemente un’utopia. Le procedure speciali, cioè i meccanismi che il Consiglio mette in atto nei confronti di paesi sospettati di violazioni, su richiesta di altri stati o di organizzazioni umanitarie indipendenti, prevedono l’invio di esperti e rappresentanti al fine della verifica delle accuse e, in caso di conferma, l’emanazione di risoluzioni che non hanno valore giuridico vincolante. Come si può credere, quindi, che un procedimento del genere venga pensato per porsi alla pari di una potenza, ad esempio la Cina, e per fermare concretamente e nell’immediato le violazioni?
Il Consiglio per i diritti umani ONU non può salvare il mondo sventolando una bacchetta magica diplomatica, crederlo ed esigerlo è illudersi con speranze ingenue. Esso ha scopo di mediazione e di informazione: mediazione nel senso che deve intavolare delle discussioni, anche con gli stati violatori dei diritti umani, per fare pressione al fine di un cambiamento delle politiche criminose in tutto il mondo, ed informazione nel senso che il dibattito produce inevitabilmente un’attenzione, anche mediatica, nei confronti di queste violazioni. Una sintesi delle intenzioni e dei presupposti dell’organismo è espressa nel 2018, proprio in replica al discorso dell’ambasciatrice Haley, dall’allora presidente del Consiglio per i diritti umani Vojislav Šuc:
In molti sensi, il Consiglio costituisce un tempestivo sistema di allerta, suonando le campanelle d’allarme in caso di peggioramento delle crisi. La sua è un’azione di guida verso risultati significativi per il miglioramento delle condizioni delle innumerevoli vittime nel mondo.
È quindi implicito e coerente che il Consiglio non possa produrre dei cambiamenti concreti e repentini, ma rimane così scoperto il punto nevralgico che più di tutti sta a cuore all’opinione pubblica: se non qui, dove si possono trovare gli strumenti per estirpare le radici della crudeltà dal mondo e per trasformarlo in una realtà giusta?
La risposta, forse, sta nelle persone: la lotta per i diritti è storicamente un movimento dal basso, l’illusione che un tale progresso possa essere messo in atto da istituzioni diplomatiche circoscritte agli ambiti dell’alta dirigenza politica è niente di più che un’ingenuità, un residuo illuminista. Lasciamo quindi al Consiglio il suo sacrosanto, giustificato ed ausiliare ruolo di informazione e di discussione senza fossilizzarci periodicamente su polemiche sterili; prendiamoci invece, noi, l’onere e l’onore di produrre i cambiamenti concreti che reclamiamo.
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