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Mali

La Corte africana e i diritti umani: il caso del Mali

In Africa sopravvivono ancora numerose discriminazioni nei confronti delle donne. L'attività della Corte africana dei diritti dell'uomo, che ha recentemente condannato il Mali, potrebbe portare a una svolta per le donne africane?

5 minuti di lettura

La nascita e la formazione in Africa di un organo come quello della Corte, basato sulle fondamenta del rispetto per i diritti e la vita, sono avvenute grazie all’articolo 1 della Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli detta anche Carta di Banjul adottata a Nairobi il 27 giugno del 1981 dall’Unione Africana[1]. Solo nel giugno del 1998, a Ouagadougou in Burkina Faso, è stato redatto un Protocollo che prevedeva la nascita di una Corte, è stato messo in atto nel gennaio del 2004. Ratificato, ad oggi, da 30 stati, ha sede ad Arusha, Tanzania.  L’articolo 5 del Protocollo spiega chi può fare accesso alla Corte africana sottoponendole un caso specifico e all’interno del paragrafo 6 è inserita l’istituzione delle Organizzazioni non governative dichiarando: «The Court may entitle relevant Non Governmental organizations (NGOs) with observer status before the Commission, and individuals to institute cases directly before it…». Ad oggi dieci stati hanno accettato la competenza delle ONG di presentare un caso dinanzi alla Corte e solo otto hanno concesso questa opportunità ai loro cittadini. La competenza della Corte nell’esaminare un caso si basa su un ampio campo di strumenti giuridici ratificati dagli stati membri che vanno a completare la Carta africana e ne coprono le eventuali lacune in materia. 

Lo strumento preso in esame in questa analisi è quello di Maputo relativo ai diritti delle donne africane sottoscritto l’11 luglio del 2003 in Mozambico ed in vigore dal 2005. È stato una pietra miliare per la questione del matrimonio per quanto concerne la libertà decisionale, l’età minima per sposarsi e soprattutto per le sanzioni sulla pratica delle mutilazioni genitali. L’adozione di tale documento è di vitale importanza, non diventa un input meramente politico ma un esempio di aiuto e protezione sociale per tutti i paesi che hanno deciso di ratificarlo restituendo, alle donne, i diritti di cui hanno bisogno e che le appartengono di fatto. I punti salienti del tale coprono, per quanto possibile, pratiche consuetudinarie, usi e processi culturali dei quali il continente africano, più di altri, è detentore fornendo una discriminazione sessuale nei confronti delle donne ampia a tutto il suo popolo.

In una società come quella dei paesi africani esistono numerose pratiche lesive nei confronti delle donne e la mutilazione genitale è quella più conosciuta. Nel 1990 in una conferenza per la salute ed il benessere di donne e bambini si è adottato l’acronimo MGF ma solo nel 1993 durante la conferenza dei diritti umani a Vienna fu dichiarato che la mutilazione genitale femminile era una brutale forma di violenza contro le donne. Culturalmente la mutilazione nasce per rallentare il bisogno sessuale delle bambine ed evitare di renderle “impure” e preservare la loro verginità e per questo motivo in molti paesi l’età minima del matrimonio è molto bassa; in Sudan l’età del matrimonio è di 10 anni, in Giordania 14 mentre in Mali 16 e ci sono alcuni paesi, come lo Yemen, dove non c’è un’età stabilita e la ragazza può sposarsi dal momento che ha il primo ciclo o, in alcune zone rurali, anche prima. 

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Nel 2016 due associazioni, IHRDA e APDF[2], hanno citato la Repubblica del Mali dinanzi alla Corte a causa della sua adozione di un codice di famiglia maliano nel 2011 che non combacia con le ratifiche che lo stato stesso ha posto precedentemente ed è stato accusato di violazione dei patti firmati e di discriminazione sessuale contro le donne. Per queste ragioni la parte lesa ha chiesto:

  • La violazione dell’età minima al matrimonio per le bambine in base all’articolo 6 (b) del Protocollo di Maputo insieme agli articoli 1 (3), 2 e 21 della Carta africana sui diritti e i benesseri dei bambini.
  • La violazione del consenso matrimoniale sulla base dell’articolo 6 (a) del Protocollo di Maputo e 16 (a) e (b) della Convenzione sulla eliminazione contro ogni forma di discriminazione contro le donne.
  • La violazione del diritto all’eredità sulla base dell’articolo 21 (2) del protocollo di Maputo e gli articolo 3 e 4 della Carta africana sui diritti e i benesseri dei bambini
  • La violazione dell’eliminazione di pratiche tradizionali lesive nei confronti di donne e bambine sulla base dell’articolo 2 (2) del Protocollo di Maputo, articolo 5 (a) della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne e dell’articolo 1 (3) della Carta africana sui diritti e i benesseri dei bambini.

Essendo il Mali un paese a maggioranza musulmana, i movimenti islamisti di tutto il territorio si sono opposti a questo genere di richieste riconoscendo in questi gruppi un nemico per l’Islam e i suoi precetti. Sulla base di quanto detto lo stato maliano si è difeso dichiarando che: 

  • L’età minima del matrimonio è associata al suo adattamento verso la società e le pratiche islamiche e l’ha stabilita all’età di 15 perché biologicamente una donna è pronta.
  • Non c’è violazione del consenso perché l’articolo 283 paragrafo 1 del codice maliano cita che non c’è matrimonio senza consenso. 
  • Lo stato maliano non aveva norme specifiche per l’eredità ma dal 2011 ha dato equa possibilità ai suoi cittadini di ereditare beni ma in molti si affidano alle pratiche e tradizioni religiose che non includono le donne. 
  • In risposta alla violazione sull’eliminazioni delle pratiche dannose lo stato dice che non è ammissibile una tale accusa poiché ci sono state delle campagne di sensibilizzazione e che anche nello stesso codice esiste la sanzione. 

La Corte africana dei diritti dell’uomo ha esaminato tutto il quadro giuridico posto dall’accusa e dall’accusato in relazione anche al codice familiare maliano e per questa ragione ha dichiarato, l’11 maggio del 2018, lo stato della Repubblica del Mali colpevole riconoscendo la violazione degli articoli richiesti dall’accusa e ha ordinato di modificare il codice rispettando gli strumenti internazionali che ha ratificato attenendosi all’articolo 25 della Carta che suggerisce di insegnare, educare e informare la popolazione su qualsiasi tematica e in più ha a disposizione due anni per riparare i danni commessi.

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A 12 anni dall’inizio della sua attività, la Corte africana dei diritti dell’uomo si è pronunciata a favore dei diritti di donne e bambini e li protegge dalle loro famiglie che dovrebbero essere un porto sicuro ma non lo sono. Questo caso apre la porta ad un nuovo orientamento giurisprudenziale per tutte le persone vittime delle medesime violazioni ma soprattutto rafforza i sistemi regionali e la Commissione africana in materia di diritti umani che avevano peccato di omertà e silenzio fino a quel momento.

Questa vicenda deve essere di insegnamento non solo al Mali ma anche alla Corte che deve interrogarsi su casi analoghi appartenenti ad altri stati che commettono ogni giorno discriminazioni contro donne e bambini e di accettare di esaminare molti più casi proteggendo, in qualche modo, nuove e future generazioni di donne che hanno come unica condanna quella di nascere in luoghi dove i loro diritti non esistono. Il 17 marzo del 2021 l’alta Corte della Repubblica del Kenya si è pronunciata a favore delle donne condannando le pratiche della mutilazione genitale ritenute dannose per la salute e per la qualità di vita affidandosi, nel ragionamento, agli stessi strumenti utilizzati nel caso del Mali. La decisione del Kenya deve far riflettere gli altri stati ma soprattutto la Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli affinché ambedue i casi non rimangano isolati sia su livello continentale sia territoriale promuovendo la tutela ed il rispetto per le vite umane. 

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[1] Organizzazione dell’Unità Africana creata il 25 maggio 1963 ad Addis Abeba con 31 paesi fondatori.

[2] Association pour le progres et la defense des droits des femmes maliennes e The institute for Human Rights and development in Africa

Alessandra Ferrara

Nata nella provincia di Caserta e laureata in lingue straniere all'università Orientale e cultrice dei diritti umani presso La Sapienza. Sostenitrice della libertà e protezione dei più deboli, amo viaggiare scrivere e leggere e nel tempo libero sono una serie tv addicted.

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