Italo Calvino scrisse del Barone rampante che il romanzo portava alle estreme conseguenze una semplice idea: «Un ragazzo sale su di un albero, si arrampica tra i rami, passa da una pianta all’altra, decide che non scenderà più». L’idea è semplice, e con essa la logica sulla quale si sviluppa: la logica dell’opposizione.
Ogni cosa, nel Barone rampante di Italo Calvino, risponde a un gioco d’opposizioni, a cominciare dal nome di Cosimo, detto Mino – il barone che sale sugli alberi e non ne discenderà più –, che richiama la leggerezza, il cielo, il cosmo, là dove gli alberi slanciano i loro rami – di contro ai nomi dei familiari, nomi lunghi e pesanti (Barone Arminio Piovasco, Abate Fauchelafleur, Cavalier Avvocato Carrega), nomi che denotano chiusura, compattezza, pesantezza, come la cuffia che avvolge il capo della sorella di Mino, Battista – spirito libero represso dalla severità del padre, capo chino dedito a inezie malriuscite (cucinare, male; aiutare in casa, inutilmente).
Per Cosimo invece no, per Cosimo è tutto un alzare, un levare, un togliere peso e valore alle cose e al proprio sguardo su di esse. Cosimo, rampicante, lo si vede dal basso verso l’alto; viceversa Cosimo, che guarda da su in giù. Sono due traiettorie oppositive lungo le quali corre tutta la narrazione: «il sole era tra le foglie, e noi per vedere Cosimo dovevamo farci schermo con la mano. Cosimo guardava il mondo dall’albero: ogni cosa, vista da lassù, era diversa».
Questo ribaltamento rovescia quanto, noi terrestri, riteniamo definisca la nostra esistenza e i nostri concetti. Anzitutto il suolo, il territorio d’appartenenza: quello di Cosimo non ha confini, la sua patria nemmeno, supera persino l’orizzonte visibile e quello della realtà da lui conosciuta, comprendendo infatti «tutto fin dove si riesce ad arrivare andando sopra gli albe…