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Educare alla creatività: i benefici del pensiero divergente per le nuove generazioni

Quando il sistema scolastico ci valuta solo attraverso numeri e classifiche, non stiamo forse perdendo la vera essenza dell'apprendimento?

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Contrariamente a quanto si pensi, le persone dotate di una spiccata intelligenza non sempre dimostrano di essere dei buoni pensatori. Gran parte di loro crede di essere superiore, vuole, anzi, pretende di avere ragione a tutti i costi e cerca di evidenziare in ogni modo possibile i torti altrui. In effetti risulta difficile credere che Einstein, Stephen Hawking o ciascuna delle personalità ritenute geniali non siano state, al contempo, degli ottimi pensatori.

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Eppure c’è chi – come lo psicologo Edward De Bono – scorge una sostanziale differenza tra il possedere un elevato quoziente intellettivo ed essere, nella pratica, capaci nei ragionamenti. De Bono, per l’appunto, classifica la prima come una potenzialità mentre la seconda come un’abilità che si può acquisire con il giusto esercizio e con strategie di pensiero diverse da quelle logico-matematiche. Queste ultime in particolar modo sono state strumentalizzate al punto tale da monopolizzare gli ambiti della conoscenza umana per secoli: a partire dalla filosofia galileiana, infatti, viene a crearsi una progressiva sproporzione tra discipline umanistiche e “scienze dure” (come verranno più tardi definite dalla filosofia analitica), a vantaggio delle seconde. Ciò favorirà la creazione di una gerarchia gnoseologica, la cui vetta sarà interamente occupata dai saperi scientifici che metteranno al bando tutti quei metodi considerati illogici e non ortodossi.

Questa visione è talmente radicata nella cultura occidentale da essere diventata, da qualche secolo a questa parte, l’unica ammissibile: basti pensare al sistema scolastico italiano che, oltre ad essere martoriato da continue riforme dalla vita breve, rimane ancorato a metodi didattici troppo vecchi per essere efficaci. Modelli che finiscono per giudicare gli studenti solo sulla base dei loro risultati scolastici, di stabilire il loro potenziale con valori che vanno da 1 a 10, raggiungibili solo se si è disposti a pensare in modo analitico e schematico.

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Edward De Bono. Fonte: Wikipedia

È qui che tornano utili le riflessioni di De Bono mirate a valorizzare il cosiddetto “pensiero laterale”, un pensiero che genera nuove idee e che esplora nuovi orizzonti in maniera creativa. Si tratta di un nuovo modo di vedere le cose capace di trovare alternative diverse ad uno stesso problema, lasciandosi guidare dal caso se necessario. Un modo di agire piuttosto divergente (come direbbe lo psicologo statunitense J.P. Guilford) rispetto agli standard a cui ci hanno abituati fin dal primo giorno di scuola: quest’istituzione infatti, più che formare menti autonome, sembra perseguire l’obiettivo dell’uniformità, sfornando persone perfettamente omologate al sistema che le ha generate. È questa la direzione dell’attuale modello scolastico italiano, la cui evoluzione in una vera e propria azienda lo induce a considerare i suoi componenti esclusivamente in termini calcolabili (numero di iscritti, di lodi ottenute alla maturità, di voti alti raggiunti da studenti brillanti ecc.). Ma sapere che un individuo ha un’ottima pagella scolastica non aggiunge nessuna informazione circa la sua intelligenza, né tanto meno può garantire prospettive di realizzazione personale.

Questo sistema tra l’altro non è circoscritto solo agli ambienti scolastici ma viene protratto ed acuito dal mondo accademico, dove a definire il valore di studenti e studentesse è sempre un numero stabilito seguendo le ferree regole della deduzione e del pensiero razionale. Il risultato? Ritrovarsi intere generazioni che, oltre ad essere frustrate perché nonostante i propri sforzi non si è mai abbastanza prestanti (complice anche il tono competitivo e trionfalistico con cui certi giornali elogiano “il laureato” o “l’imprenditrice” più giovani d’Italia, omettendo spesso i grandi privilegi socio-economici posseduti), sono anche impreparate ad affrontare le sfide quotidiane che la vita riserva. Eppure l’istruzione italiana chiude gli occhi davanti a simili problemi, continuando a promuovere poche abilità limitate e a ignorare deliberatamente tutti quei tipi di capacità scaturiti da forme di pensiero diverso dal logico-matematico.

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Quel che la maggioranza degli insegnanti fatica a comprendere è che l’intelligenza non è un fenomeno unitario misurabile attraverso test di QI, anzi si avvicina più ad una «concezione fattorialistica e multipla» per usare i termini dello psicologo Howard Gardner. Quest’ultimo, partendo da considerazioni analoghe, pubblica nel 1983 Formae Mentis dove illustra chiaramente l’insensatezza di una tale posizione monista e propone, in tutta risposta, una teoria delle intelligenze multiple. Riesce ad individuarne ben nove tipologie, ognuna deputata a campi diversi dell’attività umana, e sono: intelligenza linguistico-verbale, spaziale, musicale, cinestetica o procedurale, interpersonale, intrapersonale, naturalistica, esistenziale ed infine la sopracitata logico-matematica.

Gli studi di Gardner vengono proseguiti da altri autori come Goleman e De Bono, che si aggregano al discorso aggiungendo i concetti di intelligenza emotiva, pensiero divergente e creatività, mostrando la loro efficacia nell’ambito dell’apprendimento. Le loro ricerche infatti dimostrano come questi aspetti possono essere stimolati ed allenati tramite l’educazione – contrariamente alle comuni credenze che li riducevano a semplici predisposizioni caratteriali possedute pochi. La creatività, in particolar modo, risulta essere vantaggiosa tanto in classe quanto nella vita perché permette ad alunni e alunne di gestire le proprie informazioni creando connessioni nuove, di risolvere problemi emergenti nel modo a loro più congeniale e di avere un atteggiamento più positivo nei confronti dei cambiamenti che inevitabilmente incontreranno.

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Educare i giovani a gestire gli imprevisti è fondamentale in una società frenetica come la nostra, in una realtà in cui i mestieri dei nostri genitori tendono a scomparire e quelli dei nostri figli non sono ancora stati inventati. Eppure «il nostro sistema educativo toglie alle persone la loro capacità creativa» afferma lo scrittore britannico Ken Robinson in Creative Schools: The Grassroots Revolution That’s Transforming Education, che continua sostenendo che «cresciamo con il terrore di sbagliare e gestiamo anche così le nostre aziende e la nostra vita. È ora di creare qualcosa di innovativo [in ambito pedagogico]. I bambini hanno tutti un grande talento e noi lo sprechiamo. Sbagliano e la scuola colpevolizza chi fa errori».

Rachele Liuzzo

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