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memoria e storia ucraina

Dalla cronaca alla memoria della guerra in Ucraina 

Qual è la differenza tra cronaca, memoria e storia? E quando i fatti che oggi raccontiamo sull’Ucraina diventeranno storia, l’abbondanza di materiali che li confermano basterà a ricostruire i fatti in maniera imparziale?

10 minuti di lettura

Come sono andate davvero le cose? Domanda di livello zero, tanto legittima quanto elementare, che però non tiene conto del «quando», che non è tanto quello del «tempo del fatto raccontato», ma il «momento in cui si costruisce un racconto sui fatti».

Esiste una differenza sostanziale tra la memoria e la storia. Tale differenza si situa sul piano dell’imparzialità: da un lato, la memoria storica offre un racconto veicolato da fonti selezionate e da fattori individuali, carico quindi di soggettività e parzialità; la storia, dall’altro, ricostruisce un passato scollato e percepito come estraneo al presente, raggiungendo, quindi, un maggior grado di oggettività, attraverso un racconto che si impone come ufficiale e collettivo. 

La storia, intesa come materia per libri e come disciplina, include entrambe le dimensioni. L’incongruenza tra «memoria e storia», tuttavia, emerge quando si confronta il racconto sui fatti dell’antichità con eventi più vicini a noi.

La storia antica, infatti, ci si presenta in modo approssimativo. La scarsezza di fonti attribuisce al racconto (alla cosiddetta «favoletta») una maggiore essenzialità, e talvolta anche una certa imparzialità. Un esempio tra migliaia, che però potrebbe cedere al romano-centrismo della storia vista attraverso gli occhi degli occidentali: la storia delle guerre puniche si compiace del carattere equilibrato che permette di conferire ai cartaginesi, antagonisti dei nostri padri, un ruolo legittimo e un carattere non oppositivo (in senso buoni/cattivi) rispetto ai romani.

Per i fatti recenti o molto vicini a noi, invece, potremmo parlare di memoria, oltre che di storia. Pensiamo alla Seconda guerra mondiale, altro esempio banale, inteso non come un «avvenimento» svincolato e autonomo, ma come il «racconto di un avvenimento». La storia di quel conflitto ci è presentata come l’opposizione tra due fazioni: una delle due è occupata dai nostri nemici per eccellenza.

Non si può rendere tale opposizione meno netta, perché ciò implicherebbe un rischio intellettuale e ideologico, oltre che una sfida alla nostra concezione del mondo nettamente binaria. L’immagine di sé che l’Occidente si è fabbricata è stata costruita per opposizione a un termine contrario. Tale termine è stato fatto incarnare – sia concessa la reductio ad unum – dal pensiero e dalla politica totalitaria e discriminatoria. Dichiarando guerra alle variegate forme di nazismo, la nostra società si è fondata sulle tante declinazioni del pensiero liberale e sulle vivaci (e spesso contraddittorie) idee che tracimano dalla fede democratica e dalla libertà di affermazione e informazione.

Viene dunque da chiedersi se, appunto, guardando la storia dal nostro punto di vista, non si stia discriminando una delle due parti, difendendo solo uno dei due attori in scena. È, in parte, la stessa domanda che guida l’ideologia woke, ma anche i gender studies e gli approcci post-coloniali, che mostrano e difendono la storia raccontata – a ben vedere – dal punto di vista del più debole. 

Ora, i fatti di cronaca non sono ancora memoria, né tanto meno storia, ma lo diventeranno.

A questo proposito, abbiamo recentemente scoperto un orizzonte situato oltre le bufale nostrane. Tale orizzonte è tracciato dalle fake news russe. Le dichiarazioni che sforna quella che l’Occidente chiama disinformatia appaiono ai nostri occhi come dei goffi e strampalati tentativi di ribaltare il racconto ufficiale. La stampa russa, però, la presenta banalmente e genuinamente come «l’altra verità».

La deriva di tale riflessione è sullo schermo, tutti i giorni e a tutte le ore. Pensiamo alla puntata di Otto e Mezzo del 12 aprile, in cui la giornalista russa Nadana Fridrikhson dichiara che «la Russia non ha occupato il Donbass, ma ne ha riconosciuto l’indipendenza». Lo scontro non è avvenuto su toni accesi, ma l’insofferenza reciproca accompagnava ogni replica: Lilli Gruber si erge a docente in rudimenti di informazione libera, mentre Nadana Fridrikhson annuisce con falsità al mansplaining in atto. La conduttrice, alla fine, non risponde mai alla visione dei fatti della giornalista russa, ma scomoda concetti basilari, quali la libertà di parola, per smontare l’«altra» verità partendo dalle sue fondamenta.

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Sempre su La7, e sempre chiamato in causa per raccontare l’altro punto di vista, Alexey Bobrovsky interviene nella puntata del 10 aprile di Non è l’arena. La discussione è centrata su un post social di un’utente ucraina che sarebbe stata travisata dai media russi. Massimo Giletti ha raccolto vari materiali per dimostrare l’infondatezza dell’interpretazione russa. Si ascolta un’intervista all’autrice di tale post. Nessun volto, solo una voce. Il giornalista di Mosca, infatti, controbatte: «C’è un magistrato in studio da voi. Vorrei chiedergli: una registrazione audio, senza video, senza indirizzo, può essere considerata come qualcosa di attendibile?». Giletti, giunto alle armi corte, risponde facendo appello unicamente alla garanzia del suo nome e ai suoi trent’anni di esperienza come giornalista, come se tali criteri fossero indiscutibili e immanenti.

In questa guerra ha evidentemente già vinto, dal nostro punto di vista, la ragione dell’Occidente. Sul fronte opposto, invece, vengono raccolti materiali per scomporre la realtà e sostenere l’immagine di una Russia salvatrice della libertà ucraina.

Cosa ci garantirà, allora, che non si affermi negli anni la verità che si oppone alla nostra? Non sarà di certo la veridicità assoluta e intrinseca rivendicata da Lilli Gruber e Massimo Giletti. Ci aiuterà, forse, l’altro modo in cui si mette in scena la guerra oggi, e che non è meno controversa: l’accumulazione di materiali che documentano questo conflitto.

Sappiamo tutto sullo scontro. Tra le macerie, nel fumo delle bombe e tra le mine inesplose, a rischiare la vita (o quasi), ci sono migliaia di giornalisti a documentare un’unica e sola realtà: cadaveri, palazzi sventrati e cittadini ucraini disperati che hanno perso tutto. Qualche scuola in più, qualche ospedale pediatrico in meno: la gravità dei fatti è sempre quella.

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Verrebbe quasi da chiedersi se abbiamo davvero bisogno di affastellare, quasi facendone razzia, con accanimento, le foto e le interviste, di raccogliere documenti e di sovraesporre la guerra e la morte attraverso i media come stiamo facendo.

La risposta è sì (probabilmente) e (probabilmente) questa risposta è legata proprio al dubbio sulla natura disfattibile della realtà. In altre parole, quando i fatti che oggi raccontiamo sull’Ucraina diventeranno storia, l’abbondanza di materiali che li confermano servirà a documentare e a ricostruire i fatti in maniera imparziale. Creeremo, a partire da questi, la «nostra» memoria di questa guerra – che, solo tra qualche cinquantennio potrà diventare storia in senso assoluto.

In ogni caso, gioverà pensare alla storia come a una disciplina fatta dall’uomo per l’uomo: ne emergerebbero immediatamente la finitezza, la perfettibilità, figlie – come vorrebbe Heiddeger nell’Essere e tempo – della nostra idea del mondo.

Valeria Russo

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