I profughi fuggiti dall’Ucraina hanno superato i 2 milioni e mezzo in meno di venti giorni, più precisamente dal momento in cui l’invasione russa su larga scala è iniziata, il 24 febbraio. Sono principalmente donne, bambini e migranti o cittadini stranieri, perché gli uomini ucraini dai 18 ai 60 anni hanno il divieto di lasciare il paese e il dovere di prendere parte alla resistenza nazionale contro l’invasore, nel caso in cui la guerriglia per le strade cittadine diventasse necessaria. Chi può scappare è costretto ad abbandonare le proprie case, nei casi in cui sono rimaste intatte, o le macerie che ne restano in caso contrario, ed è costretto ad ammassarsi ai confini. Principalmente alle frontiere con Polonia, Romania, Moldavia, Slovacchia e Ungheria.
I dati della tragedia umanitaria dei profughi in Ucraina
Come riporta l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), delle 2.698.890 persone che sono scappate dalle bombe russe ad oggi più della metà, 1.655.503, si trovano in Polonia, 246mila in Ungheria, 195mila in Slovacchia, 84mila in Romania e 104mila in Moldavia. Ma oltre 100mila profughi ucraini oggi si trovano anche in Russia e poco più di mille in Bielorussia, paese retto dal regime di Aljaksandr Lukashenko e alleato di Mosca, il quale ha permesso il passaggio delle truppe russe che hanno attaccato l’Ucraina da nord e che attraverso questa direttrice sono arrivate alle porte della capitale Kyiv.
Una delle rotte principali dell’emigrazione dei profughi è però lo spostamento dai territori orientali dell’Ucraina, quelli maggiormente presi di mira da Vladimir Putin e ormai per una parte consistente sotto il controllo russo, verso le regioni occidentali, poi da lì verso i paesi UE. Lviv, Leopoli secondo la versione italianizzata, rappresenta una tappa fondamentale in questo senso. È il centro urbano più ad ovest del paese, a circa 80 km dal confine con la Polonia e a una novantina di chilometri di Przemyl, la città polacca in cui via treno, proprio dalla stazione di Lviv arrivano decine di migliaia di persone.
Oltre alle persone che avevano il permesso e che sono riuscite a lasciare l’Ucraina, l’ultimo aggiornamento dell’UNHCR dell’11 marzo riporta 1.85 milioni di profughi interni, almeno 650mila persone che stanno vivendo in Ucraina senza elettricità sotto il fuoco dell’artiglieria nemica, chiusi nei bunker in attesa di un cessate il fuoco che continua a non arrivare.
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Corridoi umanitari violati a danno dei profughi dell’Ucraina
Proprio verso l’obiettivo di un cessate il fuoco effettivo ambiscono i dialoghi tra la delegazione ucraina e quella russa, che a quindici giorni dal loro inizio, il 28 febbraio, non hanno ancora dato frutti. Dapprima il dibattito sul luogo in cui svolgerli: Putin infatti aveva proposto Minsk, inaccettabile per Volodymir Zelensky per via del ruolo che la Bielorussia ha avuto nel conflitto sin dal primo giorno.
È stato durante il secondo round di colloqui the Kyiv e Mosca avrebbero teoricamente raggiunto le prime intese sulla creazione di corridoi umanitari, che permettessero ai civili di lasciare il teatro in cui la guerra era maggiormente sanguinosa.
Mariupol sotto assedio
Intese spesso tradite dalle forze armate russe: il Ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, per esempio, fa riferimento ai fatti di Mariupol del 9 marzo, quando i russi hanno per l’ennesima volta sconvolto il mondo bombardando l’ospedale pediatrico in cui sostenevano ci fosse la sede del battaglione Azov, come avevano segnalato nei giorni precedenti all’ONU, oltre a bambini e donne incinte evacuati o rimasti vittime dell’attacco. Ciò è avvenuto in violazione di un cessate il fuoco concordato durante il terzo incontro tra le delegazioni, che avrebbe dovuto dare modo ai civili di andarsene. Invece i russi hanno ricominciato a bombardare e nessun civile è riuscito nell’impresa di uscire dalla città assediata sul Mar Nero.
Secondo il sindaco di Mariupol l’assenso di Putin all’organizzazione di un corridoio umanitario per i suoi cittadini sarebbe stata una mossa strategica per far abbassare la guardia agli avversari e riuscire a entrare. La città rappresenta un punto di raccordo fondamentale nella strategia russa, infatti la sua presa permetterebbe di istituire una continuità territoriale tra la regione del Donbass, controllata formalmente dagli indipendentisti filo-russi e concretamente da Mosca, e la Crimea, di cui Putin ha preso possesso nel 2014. In questo modo Putin avrebbe anche il controllo dell’intera costa settentrionale del Mar Nero.
Kyiv tra i principali bersagli
Oltre che a Mariupol, le forze armate russe non sono ancora riuscite a entrare nemmeno nella capitale Kyiv, dove però diversi analisti osservano come Vladimir Putin stia usando una tattica diversa: non potentissime fiammate di violenza, ma l’attesa del lento logoramento provocato dai bombardamenti aerei pressoché costanti e dall’impedimento dei rifornimenti di beni di prima necessità.
Certo è che la resistenza ucraina si sta organizzando: circolano le immagini di schiere e schiere di bottiglie di vetro usate per fabbricare bombe a mano fatte in casa, da utilizzare nella guerriglia urbana, quando i russi penetreranno in città. Fino a due giorni fa una coda di oltre 64 km di carri armati russi era posizionata fuori Kyiv, ora si sono disposti circondando la città.
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Prendere Kyiv, la capitale, significherebbe in un certo senso prendere il paese. Non significherebbe affatto riuscire a mantenere il controllo il effettivo su tutto l’intero territorio, ma darebbe a Putin la possibilità di destituire il Presidente Zelensky e di rimpiazzarlo con un governo fantoccio al servizio di Mosca. Secondo diversi analisti questo potrebbe essere l’obiettivo russo, poiché sostituire la classe dirigente con degli scagnozzi di Putin significherebbe stroncare le ambizioni filo-occidentali e filo-atlantiche che il governo ucraino ha fatto proprie sin dal suo nascere, dopo le rivolte di EuroMaidan del 2014.
Una logica senza senso
La guerra ha sconvolto il continente europeo per la prima volta da più di vent’anni a questa parte. Guerra significa bombardamenti aerei, carri armati, flotte da battaglia, mosse strategiche, leggi internazionali violate, cartine geografiche che cambiano colore di ora in ora. Ma oltre a tutto ciò e prima di tutto ciò, guerra significa tragedia umanitaria. Pensare al conflitto in termini di calcoli di sicurezza e ambizioni territoriali è indispensabile per comprenderne le dinamiche e per carpire la razionalità di chi lo orchestra, contemporaneamente tutto ciò è inutile se l’obiettivo è cercare di guardare in faccia la realtà delle vite che spezza.
I dati che mancano, infatti, sono proprio quelli dei morti. Difficilissimi da stimare mentre la guerra ancora divampa, in costante crescita mentre le bombe piovono ancora dal cielo e i cecchini sparano guardando nel mirino. C’è un dato qualitativo che però non riusciremo a quantificare mai, nemmeno finito il conflitto e cessata la propaganda di guerra: la portata dell’orrore di ciò che esseri umani, costretti a uccidersi a vicenda o ammazzati anche se indifesi, stanno vivendo.
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