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Che cos’è l’Europa? Un compito, ci spiega Husserl

Nel suo ultimo testo, la cosiddetta "Krisis", Husserl traccia una filosofia della storia che vede nell'Europa non un luogo, ma un compito

5 minuti di lettura

È possibile determinare univocamente cosa sia l’Europa? A voler rispondere con la definizione stessa del suo primo assetto ufficiale, si tratterebbe di una comunità economica regolamentata da un’organizzazione sovranazionale, dove, nel corso dei decenni, scambio economico, circolazione libera di persone e della stessa moneta si sono imposti come caratteristiche prime. Ma è forse possibile tramite queste ultime catturare l’essenza dell’Europa?

Unità spirituale

Per rispondere a tale interrogativo si prenderanno le mosse dalle stesse riflessioni che, agli albori del secondo conflitto mondiale, inquietavano l’ormai vecchio professore di Friburgo Edmund Husserl, nell’ultima grande opera a noi giunta sotto il titolo de La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Né un’unità economica, né monetaria, né tantomeno un’area geograficamente delimitata. Europa è innanzitutto, nel pensiero di uno dei suoi più grandi fautori, un’unità spirituale.

«La forma spirituale dell’Europa – ma di che cosa si tratta? Si tratta di mostrare l’idea filosofica immanente alla storia dell’Europa (dell’Europa spirituale), oppure, che è lo stesso, la sua immanente teleologia, che, dal punto di vista dell’umanità universale in generale, si rivela con la nascita e con l’inizio dello sviluppo di una nuova epoca dell’umanità; di un’epoca in cui l’umanità vuole e può vivere ormai soltanto nella libera costruzione della propria esistenza, della propria vita storica, in base alle idee della ragione, in base a compiti infiniti.»[1]

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Teleologia immanente

Si misuri la radicalità di una simile affermazione con la condizione di un professore già in un’occasione esonerato ufficialmente dall’insegnamento universitario dal regime nazista, naturalmente, in quanto ebreo. Husserl è ben consapevole del clima che torna a farsi irrespirabile, così come conosce bene la tragedia che, specie in Germania, risponde al nome di primo conflitto mondiale. Eppure individua un principio che, al di là delle guerre, travalica i confini delle nazione europee fino a riunirle in un’entità unica contraddistinta dalla coscienza di una comune appartenenza. Nella forma di una teleologia immanente, l’Europa si manifesta come tentativo infinito di adempimento ad un compito, ad un tèlos da sempre presente nella sua origine e che noi europei abbiamo il compito di portare, comprendendolo, a realizzazione. Risulta evidente in questo passaggio l’influenza reciproca tra il professore di Friburgo e il suo successore alla cattedra, Martin Heidegger, almeno in uno dei passi più significativi di Essere e Tempo; esattamente come all’esserci, cioè all’uomo, spetta rispondere alla chiamata della coscienza per comprendere la  possibilità originaria che gli è propria, quindi per progettarsi autenticamente, compito del buon europeo è portare alla luce quell’origine che agisce silenziosa su tutta la storia europea, ma che, solo se riattivata, può diventare un fine pratico, una missione della volontà, consapevolezza di responsabilità per ciò che è lui destinato.

Questa origine ha per Husserl, ed anche per Heidegger d’altronde, un inizio storicamente determinato. L’imperativo dell’allievo di scegliere i propri eroi, cioè il fatto che ogni epoca si caratterizzi per lo strato storico a cui si richiama, è raccolto dal maestro e indirizzato alla Grecia del VII e VI secolo. Da un piccolo gruppo di individui isolati sorgono comunità caratterizzate dalla nascita di un nuovo atteggiamento culturale e spirituale, un movimento storico talmente rivoluzionario che Husserl torna a definirlo come un rivolgimento epocale. Ma in che cosa consiste questo rivolgimento?

L’incontro con l’Altro

È nell’incontro con l’Altro che ha luogo questa rivoluzione del pensiero, in un nuovo modo di fare esperienza del corpo, dello spirito dell’Altro. Si obietterà, i greci del VII-VI secolo non erano certo il primo popolo a sperimentare l’incontro-scontro con altre culture, dato che alla base della vita c’è sempre stata e sempre ci sarà la contaminazione, mai l’identità pura. Ciononostante nell’Altro e con l’Altro, i greci trovano un’occasione per problematizzare, per comprendere uno scarto a partire da cui la percezione del mondo viene modificandosi irrimediabilmente. Si tratta della distanza tra sapere e verità, dell’abisso tra la mia rappresentazione del mondo e il mondo in quanto tale. L’Altro esibisce la validità delle sue leggi, l’antichità dei suoi costumi, la cieca devozione verso i suoi dei. In altre parole, inquieta e rende scomode le mie certezze, le fa vacillare con la sola presenza, apre un baratro che svuota di senso ogni pretesa di obiettività. Compresa l’alterità dell’Altro, ovvero la sua stessa immagine riflessa, il greco può ripiegarsi su se stesso e problematizzare le sue leggi, le sue tradizioni, persino i suoi dei, può fare esperienza della totalità del mondo come problema. Nasce l’autentico concetto di verità: la verità come problema. Contro buona parte della critica, questa è la lezione dei Persiani di Eschilo. La comprensione di un’alterità che mi sfida, che non mi è seconda per natura o per sconfitta militare, che solo grazie alla sue stessa esistenza qui ed ora, mi offre la possibilità di ri-conoscermi, di acquisire un volto, un’identità.

Alla luce di quanto detto, è possibile comprendere il concetto di crisi in Husserl. Una crisi esaminata in primo luogo nelle scienze del Novecento, ma che attraversa l’intera umanità europea, obliando quel fine intrinseco nella fondazione greca e con esso, la possibilità dell’uomo di costruire autenticamente la propria esistenza sulla base della ragione. Perché l’oblio dell’origine, comporta anche la trasformazione del concetto di ragione: ed ecco che la produzione infinita di nuova linfa data dallo scarto irriducibile (ma sempre posto come approssimabile) tra sapere e verità si tramuta nella ragione utilitaristica, nel mero calcolo, nella ragione che, parafrasando Heidegger, non pensa, è solo capace a “far di conto”. Una scienza che si veste di questa forma di ragione diventa scienza di fatto, perde il contatto con il mondo dell’esperienza, con la vita, con i problemi del senso e del non-senso dell’esistenza: eclissa l’uomo. Con la sua velenosa pretesa di ridurre la realtà circostante a formule, a modelli già da sempre predetti, gioca d’anticipo sulla vita, ne incasella le forme, decretando a priori che ciò che non risponde alla categoria di utile, di efficiente deve esser spazzato.

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Oggi

L’eclissi della distanza tra la nostra rappresentazione del mondo e il mondo in quanto tale significa allora l’eclissi della comprensione dell’alterità, della funzione dell’Altro. Solo in questa prospettiva possiamo afferrare il concetto di crisi, così, la trasformazione dell’Europa da unità spirituale a regione economica, geografica. Solo in questa prospettiva possiamo comprendere tra i tanti esempi, il fuoco aperto a pochi metri dai migranti legittimamente rivendicato dalla Presidentessa della Commissione europea Ursula Von der Leyen a largo dell’isola di Lesbo nel marzo dello scorso anno, dopo aver definito la frontiera greca lo «scudo europeo». Così come è pensabile solo in quest’ottica il netto rifiuto all’accoglienza di afghani in fuga da parte del Cancelliere austriaco Sebastian Kurz lo scorso 14 settembre.

È evidente che ripensare l’Europa e cosa essa significhi è una questione più che urgente. Nelle macerie del primo dopo guerra, Husserl aveva dato una direzione a questo percorso di ripensamento, tratteggiando un’idea di Europa che dell’irriducibile distanza tra sapere e verità, continuamente si alimenta. Il compito di ogni europeo consiste allora nel portare alla luce, nel vivere nuovamente l’intuizione prima della filosofia, nello svelarne l’origine greca, nel qualificarsi come cultura che ospita perché conosce se stessa in quanto ospitata, in quanto figlia di un incontro.

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[1] Husserl, Edmund, La crisi dell’umanità europea e la filosofia ne La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1954),  trad. it. di Enrico Filippini, p. 313, Il Saggiatore: Milano, 2015.

Lorenzo De Benedictis

24 anni, da Siracusa. Da ingegnere fallito a studioso di filosofia incallito il passo è breve. L'unica cosa certa è che invecchierò pescando in un'isola greca sperduta

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