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Jeremy Corbyn

Elezioni UK. Cosa non ha funzionato nel Labour di Jeremy Corbyn?

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19 minuti di lettura

Nella tradizione britannica, la notte delle elezioni, i dati sui singoli seggi vengono comunicati collegio per collegio e i singoli candidati vincenti proclamati sul posto, su palchetti tirati spesso su in maniera improvvisata in municipi, scuole, palestre e centri civici sparsi per il Regno Unito. Nella notte tra giovedì e venerdì scorsi da alcuni di questi luoghi sono provenute dichiarazioni mai ascoltate a memoria d’uomo: quelle di neodeputati del Partito Conservatore eletti in zone fino a pochi anni fa impensabili, nello Yorkshire, nelle East Midlands e nel North East. A cadere, nella notte della peggior sconfitta del Partito Laburista dal dopoguerra a oggi – a onor del vero in termini di seggi e non di voti, ma è la crudele legge del first past the post, il sistema ipermaggioritario d’Oltremanica – sono stati collegi che mai prima avevano eletto rappresentanti che non fossero espressione del Partito Laburista inglese. Zone di minatori, ceramisti, portuali, metalmeccanici e operai di tutte le categorie che fino a pochi giorni fa avevano sempre costituito la parte più forte della spina dorsale della sinistra britannica, quello che veniva comunemente chiamato il Red wall, il muro rosso che congiungeva da Ovest a Est il Galles del nord, il Merseyside, il Lancashire e lo Yorkshire e poi su fino al North East, abbracciando non solo le grandi e iconiche città di Liverpool, Manchester o Sheffield, ma anche tanti centri medio-piccoli e semi-sconosciuti, ma pieni di colletti blu: da Wrexham a Chesterfield, da Grimsby a Hull, fino ai grandi cantieri navali di Sunderland. 

Elezioni UK
La mappa del voto
Fonte: The Guardian

La vicenda Dennis Skinner

Uno di questi collegi, quello facente riferimento a Bolsover, un piccolo centro del Derbyshire che fino a qualche decennio fa impiegava migliaia di uomini nelle miniere di carbone, era diventato un vero e proprio simbolo del Red wall, per via di quello che per quasi mezzo secolo e fino all’altra sera ne era e ne è stato l’iconico rappresentante, il laburista Dennis SkinnerThe Beast of Bolsover. Rubizzo in volto e nella cravatta d’ordinanza, lo sguardo e l’andamento di chi ha attraversato trequarti dell’ultimo secolo britannico, la voce dura e il linguaggio diretto di un minatore figlio di minatori, l’indice della mano sempre puntato verso l’alto, in avanti, verso i banchi degli arcinemici del Partito Conservatore, con cui nessuna collaborazione è mai stata possibile: Dennis Skinner era l’incarnazione di quei luoghi, ed era il più longevo parlamentare tra i candidati a queste elezioni, essendosi seduto su uno scranno di Westminster per la prima volta nel lontano 1970. Skinner ha perso il suo collegio venerdì notte, ottenendo circa 5.000 voti meno di Mark Fletcher, candidato dei Conservatori, e non sarà dunque il Father of the House, il decano dei Parlamentari. La storia di Skinner, la storia di un socialista tradizionale, sindacalista, repubblicano impenitente al punto da ironizzare a gran voce a ogni cerimonia regale, membro vero della working class dell’Inghilterra interna lontanissima dalle atmosfere londinesi – memorabile su questo il suo gioco di parole in cui al coke, il carbone estratto e respirato nelle miniere del Nord, si contrapponeva la coke, la cocaina consumata dai giovani rampolli conservatori usciti dalla prestigiosa scuola di Eton –, sintetizza la storia di un pezzo del Labour Party che è stato e che, simbolicamente, non sarà più.

«I am proud to stand up for my class, to say publicly that I am from good working-class stock. I am proud to be a trade unionist, to be a member of the Labour Party and to be a socialist. I stick to my principles. I know no other way in politics. I make mistakes, everybody does. Nobody is perfect. I have no monopoly on the best way of being an MP. I try not to let anybody down. I’ve sailed close to the wind in my life but always for the good of the cause, to champion those at the bottom of the pile who deserve better». (Dal primo capitolo di «Sailing Close to the Wind: Reminescenses», autobiografia di Dennis Skinner).

Sailing close to the wind (che, tradotto, significa più o meno vivere sul filo del rasoio) per Mr Skinner ha voluto dire, negli ultimi anni, dover rappresentare in Parlamento un collegio fieramente favorevole alla Brexit che nel referendum del 2016 aveva votato per oltre il 70% per lasciare il prima possibile l’Unione Europea – tendenza questa comune a tanti collegi tradizionalmente operai e laburisti del Nord. Questo mentre le spinte di molti dirigenti del suo partito, dei grandi media progressisti e dell’establishment londinese a favore di un Labour smaccatamente pro-Remain si facevano via via sempre più forti, fino a costringere l’estremamente riluttante Jeremy Corbyn a inserire nel manifesto elettorale laburista la promessa di un secondo referendum sulla Brexit. Le molte interviste raccolte a Bolsover dal Guardian e dalla BBC mostrano chiaramente come questa scelta sia stata particolarmente invisa a molti elettori locali, che già avevano manifestato il loro disappunto verso il partito e il suo leader a maggio, alle elezioni locali, quando il Labour, pur primo, per la prima volta non aveva ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi.

Dennis Skinner
Dennis Skinner
Fonte: zimbio.com

La vicenda della piccola e provinciale Bolsover e del suo incredibilmente iconico ex-rappresentante risulta paradigmatica anche a considerare le tante altre storie della notte elettorale, quelle dei tanti mattoni dell’ex muro rosso sgretolarsi e crollati per la prima volta nel 2019. Il confronto riportato nella tabella (qui sotto in download) con il risultato del Leave al referendum sulla Brexit e con le elezioni politiche del 2017, quando Jeremy Corbyn guidava il Labour alla sua prima sfida da leader nazionale, danno un’idea chiara della situazione. Dove non poté neanche Margaret Thatcher, poté la Brexit, verrebbe da dire a commento.

Il perché della sconfitta Labour

Il Labour Party ha perso il controllo di ben 55 dei seggi che deteneva dal 2017; 41 di essi sono proprio nelle zone storicamente laburiste (e il confronto sarebbe ancor più impietoso se si aggiungessero i seggi persi nelle aree periferiche di un’altra roccaforte rossa, Birmingham, come West Bromwich e Wolverhampton).

Restano ora da indagare le ragioni dietro questo epocale sommovimento elettorale. Le due principali, riconosciute da tutte le parti in causa, seppur con gradazioni diverse a seconda delle rispettive posizioni, sono lo stanco trascinarsi e il continuo rinvio della tanto agognata Brexit da un lato, e le difficoltà avute dentro e fuori il partito da Jeremy Corbyn dal 2017 a oggi, dall’altro.

Sul tema Brexit il Primo Ministro uscente e leader del Partito Conservatore Boris Johnson ha investito quasi tutta la sua campagna elettorale, ripetendo ossessivamente in tutti i luoghi e i momenti possibili la frase-mantra Get Brexit done, il grande obiettivo di questa tornata elettorale. Avendo già sperimentato in prima persona durante la campagna referendaria del 2016 come il vento nazionalista e antieuropeo tirasse forte in molte parti del Regno (e fuori dalla Grande Londra in particolare), BoJo ha avuto buon gioco nel tornare a fischiettare i vecchi motivetti, aggiungendo una nuova hit populista, quella del dare finalmente una botta popolare a un Parlamento che non era stato in grado né di trovare un accordo con la UE, né di sposare una no deal Brexit, un’uscita senza accordo; un nuovo Parlamento finalmente depurato dai vecchi Conservatori europeisti.

Al suo fianco (pur dall’esterno) l’alleato di allora, Nigel Farage, che in nome dell’unità del fronte euroscettico ha ritirato tutti i candidati del suo Brexit Party dagli oltre 300 collegi già in mano ai Conservatori, concentrando tutta la propria campagna elettorale sulle zone a maggioranza laburista che avevano però scelto il Leave nel 2016, quelle dove in passato anche lo UKIP (la precedente creatura del funambolico Farage) aveva ottenuto i risultati migliori. A posteriori, si può dire che la scommessa di Johnson e Farage abbia pagato, se è vero che i Conservatori sono cresciuti nettamente nelle aree a forte presenza di Leave voters e ben 294 dei 365 seggi ottenuti dai Tories provengono da quelle zone. E così BoJo ha avuto gioco facile nel dichiarare urbi et orbi a nottata elettorale ancora in corso che «This election means that getting Brexit done is now the irrefutable, irresistible, unarguable decision of the British people», utilizzando la più vasta combinazione di aggettivi trionfalistici in quel momento disponibili sul mercato. 

Il momento della proclamazione di Boris Johnson, ad Uxbridge. Alle sue spalle, alcuni dei candidati sconfitti, tra i quali spiccano il pupazzo Elmo e i due concorrenti della rappresentanza aliena, Count Binface e Lord Buckethead

Il Partito Laburista è rimasto schiacciato tra la tendenza europeista della propria classe dirigente – in grandissima parte espressione di Londra e dei collegi pro-Remain delle grandi città – e la schiacciante contrarietà all’Unione e, più in generale, di un poco ascoltato senso di abbandono della classe operaia laburista. Si può dire con grande certezza, armati di una buona dose di senno di poi, che la scelta di Jeremy Corbyn di seguire in modo tardivo e poco convinto le sirene dei remainers, sposando la proposta di un secondo referendum sulla Brexit, non abbia portato a grandi risultati né nei luoghi del Leave, già insidiati dai Conservatori, né nelle zone europeiste, già presidiate da tempo dalla martellante campagna del Partito Liberaldemocratico, spintasi addirittura alla possibilità annunciata dalla ormai ex leader Jo Swinson (sconfitta nel suo collegio scozzese dal grande ritorno dell’SNP, lo Scottish National Party) di cancellare direttamente la Brexit per via parlamentare, senza nemmeno passare dal via di un nuovo voto.

Non solo Brexit

Ricondurre le cause della sconfitta laburista al solo tema della Brexit con tutti i suoi annessi e connessi sarebbe, però, limitante, dato che a cadere sono stati anche i seggi per anni rappresentati da laburisti fieri oppositori dell’Unione Europea, a partire proprio da Dennis Skinner. C’è di più, e quel di più va cercato nei tribolati ultimi tre anni vissuti dal principale partito di opposizione a Westminster. Se infatti Jeremy Corbyn ha dimostrato di sapere quali corde toccare per riavvicinare la parte più a sinistra del Partito, portando all’adesione di migliaia di nuovi iscritti (specialmente giovani), dall’altro ha dato prova di non essere in grado di tenere unito un gruppo parlamentare frastagliato e variegato, cosa accaduta in modo plastico non solo nei passaggi parlamentari relativi alla Brexit, ma anche nella gestione di alcune accuse interne, relative da un lato alla scarsa disponibilità del leader all’ascolto delle minoranze (non si contano i riassetti del Governo-ombra laburista da quando Corbyn è leader) e, dall’altro, alla pessima gestione di un caso in particolare, quello relativo al supposto diffondersi dell’antisemitismo tra militanti e dirigenti del partito, ampiamente strumentalizzato dagli avversari interni ed esterni del leader laburista, ma da lui affrontato in ritardo e con grande timidezza.

Jeremy Corbyn
Jeremy Corbyn
Fonte: The Guardian

Vi è poi un terzo tema, che compare spesso nei discorsi di accettazione della sconfitta degli ex deputati laburisti del Nord, e cioè quello di una spaccatura sempre più netta tra il Partito della capitale e l’elettorato delle sue ormai ex roccaforti, distanza questa che è ormai un classico della sinistra europea. Distanza che l’elezione di Jeremy Corbyn, con le sue posizioni smaccatamente socialiste, sembrava aver affievolito (e gli ottimi risultati del 2017 sono lì a confermarlo), e che invece si è acuita nell’ultimo biennio. C’entra la mancata Brexit, di nuovo, ma anche l’assenza, tra le prime linee dei dirigenti laburisti, di persone provenienti dai territori di Skinner e compagni: lo stesso Jeremy Corbyn e diversi dei suoi più stretti collaboratori, da John McDonnell a Keir Starmer, sono espressione di sicuri collegi londinesi. Stando alle accuse di Gareth Snell, ex deputato della città delle potteries, Stoke-on-Trent, dove il Labour non perdeva dal Dopoguerra, «They (i laburisti londinesi, ndr) have sacrificed us for whatever political ambitions they want to do next», con la decisione di mettere lo stop della Brexit davanti al rispetto dell’elettorato tradizionale. Non troppo diverse le voci provenienti da Sedgefield, il vecchio seggio del nordest retto per oltre due decenni da Tony Blair in persona, e ora perso per la prima volta dagli anni ’30.

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Quasi nessuno dei commentatori d’Oltremanica menziona il manifesto elettorale dei laburisti – manifesto pienamente socialista – tra i principali motivi della sconfitta elettorale, se non per una generico quanto vero riferimento a un eccessivo numero di proposte (specie se contrapposto al semplice e diretto Get Brexit Done johnsoniano). Ma alcuni elementi (investimenti sulla sanità e voto giovanile, in primis) hanno permesso a Corbyn di dichiarare, nel post elezioni, che i laburisti avranno pur perso le elezioni, ma sono riusciti a inserire le loro priorità nel dibattito nazionale.

«Sailing close to the wind»

Comunque stiano le cose, il Labour avrà una nuova guida dal 2020. Bisognerà vedere se la vicenda di Jeremy Corbyn – di questo radicale con l’aria di un professore di geografia in pensione, campione di quasi tutte le cause perse della sinistra europea – sarà stata solo una piccola parentesi o sarà l’inizio di una nuova tradizione. Le basi per ripartire, almeno nelle terre di Sua Maestà, sono solide, al contrario di quelle di gran parte della sinistra europea: oltre il 30% dei consensi, un forte radicamento nelle città e tra donne e giovani generazioni, alcune parole d’ordine molto popolari. A non tornare più saranno le generazioni dei Corbyn, dei McDonnell e degli Skinner, gente che Tony Blair bollava come irresponsabili bislacchi ai tempi del New Labour, gente che ha vissuto tutta una vita difendendo i propri ideali – sempre, cocciutamente, gli stessi ideali, anche quelli fuori tempo massimo -, e lo ha fatto in tutti i luoghi possibili, dal palco di Glastonbury alle miniere di Bolsover. Una vita politica vissuta e spesa stando sul filo del rasoio, quasi sempre in direzione ostinata e contraria. Sailing close to the wind, direbbe Mr Skinner.

Carlo Sormani

Redazione

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