Oggi, 21 marzo, non è solo il primo giorno di primavera: è anche la Giornata Mondiale della Poesia. Ne approfittiamo allora per condividere con i lettori le nostre poesie preferite, quelle che non ci stancheremo mai di leggere e rileggere.
«Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale» di Eugenio Montale
Iniziamo la nostra carrellata in occasione della Giornata Mondiale della Poesia con una delle poesie più struggenti della letteratura italiana: Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale di Eugenio Montale, contenuta in Satura, nella sezione Xenia II.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
[…]
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Questa poesia parla di amore e morte, di dolore e rimpianto. Perché colei che muore, colei che non c’è più, è Mosca, ossia Drusilla Tanzi, la moglie del poeta. E il vuoto che si apre nell’animo del poeta è abissale. La vita, intesa come un viaggio fatto di scale, non ha più senso quando non c’è più il braccio della moglie a cui aggrapparsi. Non ha più senso perdere tempo in fugaci occupazioni, stare dietro agli «scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede». Si smette di credere nella realtà che senza di lei non ha più senso, perché lei era tutto. O almeno, era ciò che permetteva al poeta di sopportare la quotidianità, senza lasciarsi andare. E così, questo «vuoto ad ogni gradino» che ha attraversato i cuori di milioni di lettori e cultori della poesia montaliana, ha forse ancora oggi la stessa carica di intensità di un tempo.
Consigliata da Vladislav Karaneuski
«Matrimonio» di Gregory Corso
Matrimonio è sicuramente una delle poesie più toccanti e ironiche del poeta beat Gregory Corso. In occasione della Giornata Mondiale della Poesia 2021, ne riportiamo alcuni versi nella traduzione dell’impareggiabile Fernanda Pivano:
Eppure se dovessi sposarmi e fosse il Connecticut e la neve
e lei partorisse un bambino e io non potessi dormire, esausto,
in piedi la notte, il capo su una muta finestra, il passato alle spalle […]
Certo gli darei per capezzolo un Tacito di gomma
Per sonaglio un sacco di dischi rotti di Bach
Attaccherei Della Francesca intorno alla culla
Cucirei l’alfabeto greco sul suo bavaglino
E per il suo passeggino costruirei un Partenone senza tetto
No, non credo che sarei quel tipo di padre
niente campagna niente neve niente muta finestra
ma rovente puzzolente isterica New York City
sette piani di scale, scarafaggi e topi sui muri
una grassa moglie reichiana che strilla sulle patate Trovati un posto!
Nonostante Corso si sia sposato più di una volta e abbia avuto cinque figli, in questo componimento decide di analizzare il matrimonio con gli occhi di uno scapolo. Seguono decine di riflessioni: dall’incontro con i genitori di lei alla convivenza, dalla cerimonia con i rispettivi parenti e amici alla nascita del figlio. Con il suo linguaggio semplice e diretto, Corso si immagina una serie di possibili evoluzioni dell’unione fra marito e moglie. Idealmente si sogna immerso in un paesaggio idilliaco con una moglie amorevole e un figlio da educare alla maniera dell’Emilio di Rousseau. La cultura diviene qui un orpello, ma anche estremo e scanzonato atto d’amore. Tuttavia, l’alternativa più plausibile e dissacrante è un’altra: una moglie dittatoriale che impartisce ordini in un angusto appartamento newyorkese.
La fantasia di Corso trabocca come nella migliore tradizione dei flussi di coscienza. Disegna scenari più o meno vividi, ma nessuno realmente vero. Rimane sempre nel campo dell’ipotetico, ma il passaggio del matrimonio gli procura sentimenti contrastanti: l’euforia improvvisa lascia spazio allo sconforto più acuto, tutto però contornato dalla caustica ironia dell’autore.
Consigliata da Lorenzo Gafforini
«Candele» di Konstantinos Kavafis
Konstantinos Kavafis è tra i principali esponenti della poesia greca moderna, che ha saputo coniugare la tradizione ellenica e bizantina a una modernità anticonformista nei confronti di valori fondanti della società greca del suo tempo come la cristianità, il patriottismo e l’eterosessualità. Kavafis è noto anche per essere cantore della nostalgia e della vita interiore, come dimostra la sua poesia Candele, risalente alla produzione pre-1910, ovvero alle poesie di stampo parnassiano e simbolista.
Il poeta greco rappresenta la concezione lineare del tempo raffigurando una fila di candele, che si presentano «dorate, calde e vivide», mentre alle sue spalle si fanno «fredde, piegate e sfatte». L’io lirico si rattrista all’idea di guardare alla «penosa linea di candele spente», poiché gli ricorda che anche il futuro con le sue speranze può diventare passato, e dunque la vita può giungere a un’unica meta: la fine. Tuttavia, l’io lirico – e con lui il lettore – prende una posizione decisa: sceglie di vivere il tempo del presente, senza mai voltarsi indietro, anzi, guardando soltanto in avanti, poiché nonostante la fine sia ineluttabile, il futuro resta pieno di vita e di speranza. Di questa bellissima poesia, riportiamo le ultime due strofe nella traduzione di Nicola Crocetti:
Non le voglio vedere; la loro forma mi rattrista,
mi rattrista ricordarne l’antica luce.
Guardo davanti a me le mie candele accese.
Non mi voglio voltare, vedere con orrore
come si allunga in fretta quella linea scura,
come si moltiplicano in fretta le candele spente.
Consigliata da Alberto Paolo Palumbo
«Notti senza chi ami» di Marina Cvetaeva
Si apre con un chiasmo una delle poesie più suggestive di Marina Cvetaeva, che riportiamo nella traduzione di Marilena Rea: «Notti senza chi ami – e notti / con chi non ami». Un chiasmo che per la poetessa russa assurge a simbolo dell’assurdità della vita, costellata da eventi inspiegabili, cui è impossibile trovare un senso. Il lettore si trova di fronte all’immagine di braccia levate a un Dio lontano, «che non può essere – e deve esserci»: si direbbe che non esista, tanto la vita è insensata, eppure Cvetaeva rifiuta di piegarsi a questa constatazione. Un senso deve esserci, anche se fatichiamo a trovarlo. Dio deve esserci.
Notti senza chi ami – e notti
con chi non ami, e grandi stelle
sopra il viso ardente, e braccia
protese verso Colui
che non ha inizio e non ha fine,
che non può essere – e deve esserci…
[…]
Ora so ciò che ha inizio e ciò che ha fine,
ora so tutto il segreto sordomuto
che si chiama, nella povera lingua
sgrammaticata degli umani – Vita.
All’io lirico sembra, per un istante, di capire. C’è un senso misterioso perfino nelle notti passate con chi non amiamo, distanti da chi, invece, amiamo. È il «segreto sordomuto» cui da secoli gli uomini tentano, pur non avendone gli strumenti, di dare un nome: Vita.
Consigliata da Francesca Cerutti
«Non conosciamo mai la nostra altezza» di Emily Dickinson
Abbiamo paura, tutti, ogni giorno. Pensiamo di non essere abbastanza bravi, intraprendenti, adatti alle aspettative altrui. Con Non conosciamo mai la nostra altezza, Emily Dickinson ci infonde speranza, perché nel momento in cui ci tocca far indietreggiare la sedia e drizzarci su gambe che tremano e non sembrano sostenere il nostro peso, proprio in quel momento scopriamo che valiamo. Alzarsi però non basta, dobbiamo dare il meglio di noi stessi, perché solo «se siamo fedeli al nostro compito arriva al cielo la nostra statura».
Non conosciamo mai la nostra altezza
Finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
Arriva al cielo la nostra statura.
L’eroismo che allora recitiamo
Sarebbe quotidiano, se noi stessi
Non c’incurvassimo di cubiti
Per la paura di essere dei re.
Spesso l’essere umano preferisce una vita curva su sé stessa, priva di eroismi, volta a non perdere nulla, piuttosto che provare a realizzare i propri sogni. Dunque l’uomo frequentemente sceglie di essere “servo” anziché “padrone”, perché ha paura, teme di rischiare. Forse siamo dei re che si credono mendicanti. Ci precludiamo la possibilità – il diritto – di vivere al massimo solo perché abbiamo paura. Una poesia, quella della Dickinson, che dovremmo tenere sul comodino per ricordarci ogni mattina che ci troviamo di fronte ad una scelta: possiamo esplorare il cielo e perderci nella sua immensità, o guardare da lontano le stelle per il timore delle vertigini. Ecco perché consigliamo di leggerla in occasione della Giornata Mondiale della Poesia.
Consigliata da Maria Ducoli
«A te» di Walt Whitman
Walt Whitman è un poeta dalla grande fama, che ha ottenuto anche grazie al film L’attimo fuggente. La celebre poesia O capitano! Mio capitano! citata nella pellicola non è, tuttavia, la nostra scelta per la Giornata Mondiale della Poesia 2021. Si tratta, invece, di un componimento assai più semplice, seppur tratto dalla medesima raccolta, Foglie d’erba, dal titolo A te (che riportiamo nella traduzione di Giuseppe Conte).
È una delle poesie più brevi della raccolta, ma nei suoi appena tre versi ci offre il significato dell’appartenenza, del dialogo, della sintonia tra le persone, un monito che dobbiamo cogliere senz’altro ancora adesso. Come ci ricorda ad esempio Giorgio Gaber nel suo monologo La paura, è infatti la diffidenza a riempire l’animo di tanti di noi quando ci troviamo di fronte ad uno sconosciuto. Incontrare uno straniero per strada si traduce infatti subito in un profondo timore, la paura di sentirsi in pericolo a causa degli altri.
Whitman, invece, si rivolge a quello straniero e si chiede perché non dovrebbe parlare con lui, perché non dovrebbe esistere un dialogo. È sul potere della parola come sintomo di appartenenza, altro concetto assai caro a Gaber, che Whitman ha fondato questo suo breve ma intenso componimento. Anche stilisticamente, l’autore ha reso la centralità della parola separando i primi due versi in un momento fondamentale: «parlare» e «con me» vengono divisi da un enjambement; «parlare» corrisponde a «parlarmi» nel secondo verso e a «parlare» nell’ultimo. Questi termini nella poesia originale in inglese corrispondono a un’unica parola, «speak», la chiave di questa poesia: parlare con l’altro.
Straniero, se tu passando mi incontri e desideri parlare
Con me, perché non dovresti parlarmi?
E perché io non dovrei parlare con te?
Consigliata da Silvia Argento
Bonus track per la Giornata Mondiale della Poesia: «Sono nata il ventuno a primavera» di Alda Merini
Il 21 marzo ricorre anche l’anniversario della nascita della poetessa milanese Alda Merini (21 marzo 1931 – 1 novembre 2009). Tra i suoi componimenti più celebri, c’è proprio una poesia intitolata Sono nata il ventuno a primavera, in cui l’autrice affronta direttamente il tema della malattia mentale e dello stigma sociale, in chiave autobiografica. Non potevamo che chiudere così la nostra carrellata in versi per la Giornata Mondiale della Poesia.
Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
Immagine in copertina: Photo by Nicolas Thomas on Unsplash
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