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Goffredo Parise e «L’odore del sangue»: sesso, gelosia, ossessione

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12 minuti di lettura

Parise: l’uomo, lo scrittore

Goffredo Parise scrisse L’odore del sangue nell’estate del 1979. All’epoca era appena scampato da un infarto. Vivo, certamente vivo, eppure provato fisicamente ed emotivamente. Lo scrisse di getto come preda di una febbre, un fantasma che bruciava dentro. Parlava in lui una voce altra, più forte, oltre la razionalità. Era una voce intima, velata di una cupa prepotenza, capace di scuotere e di sormontare il tempo, la realtà, persino la scrittura. Quello stesso fantasma creativo – la parola – precedeva lo scrittore, e in lui, l’uomo. Il testo fu scritto in pochissimo tempo e poi, come si fosse trattato di un esorcismo, di un gesto purificatore, venne sigillato con i piombini e la ceralacca, poi chiuso in un cassetto. Vi rimase per  sette anni.

Parise rimise mano al manoscritto nell’estate del 1986: il suo lavoro si ridusse a poca cosa. Fu, è il caso di dirlo, una semplice rilettura. Pochi giorni dopo – come una premonizione, un accadimento già atteso – Parise venne portato in ospedale: gli avevano diagnosticato un’arteriopatia, era già dieci anni che soffriva. Morì due mesi dopo. Era il 31 di agosto.

Ciò che sorprende di questo romanzo è la fretta, la velocità (voracità?) con cui è stato scritto. A vederlo oggi, nella bella edizione Rizzoli, è un libro compiuto. Le note a piè di pagina colmano le lacune, gli spazi lasciati vuoti. Eppure il fascino risiede nell’interpretazione, nella supposizione. Già, perché come sottolinea Cesare Garboli nelle sue note introduttive, le parole appaiono spesso soltanto accennate, sono incomplete, spezzate, a tratti indecifrabili. È come se Parise avesse volutamente scansato gli impicci per correre disperatamente verso un centro – il cuore – della storia, oppure, più oscuramente, verso la fine. Del romanzo? La sua?

Goffredo Parise e Giosetta Fioroni photo © Mario Schifano
Goffredo Parise e Giosetta Fioroni
photo © Mario Schifano

All’epoca della stesura sembra che Parise fosse rimasto particolarmente turbato da un fatto di sangue, una storia bolognese da cronaca nera. Eppure il materiale di questo romanzo è autobiografico. A Giosetta Fioroni, sua compagna di vita, confidò prima di morire: «Se fossi stato un’altra persona sarei andato da uno psicoanalista per liberarmi dalle mie ossessioni. Ma siccome sono uno scrittore, me ne sono liberato scrivendo». Giosetta ha rivelato in una recente intervista a Repubblica[1] che le ci sono voluti sei anni per trovare il coraggio di leggere L’odore del sangue: fu «un tormento». La relazione amorosa tra Parise e la Fioroni è tutta in quelle pagine: il loro primo incontro al Caffè Rosati, il vestito di lei a losanghe, bianco e nero. E naturalmente la vicenda, i tradimenti, la ragazza di lui e il ragazzo di lei: «Goffredo ne fece una tragedia».

Il romanzo

Carlo e Silvia sono una coppia di cinquantenni, sposati da più di vent’anni. Lui, medico – probabilmente psichiatra con propensioni alla psicanalisi – è un uomo che conosce bene le due polarità dell’umano. Da un lato il sangue, dunque la carne, la materia, l’odore delle sale operatorie. Dall’altro la mente, l’intelletto, l’inconscio, ciò che non si vede ma c’è. Carlo, che nella vita è stato un dongiovanni e che all’epoca della vicenda intrattiene una relazione extra-coniugale con una ragazza di venticinque anni, Paloma, apprende dalla moglie, donna ancora piacente ed elegante dalle lunghe «cosce tornite», di una sua «sbandatina» per un ragazzo più giovane. Filippo è un borgataro, un teppista, un picchiatore nullafacente con confusionarie idee politiche nella testa. Quello di Silvia è un tradimento a tutti gli effetti, ma, a detta di lei, si tratto solo di un’infatuazione passeggera – lo crede, ci vuole credere – e certamente non durerà nel tempo.

La confessione ingenera l’ossessione. Carlo è spaesato, meglio, sconvolto: il dolore per il tradimento si trasforma in un’inesorabile descente aux enfers. La scrittura che accompagna le sue riflessioni, i lunghi monologhi con se stesso (Carlo non osa chiedere i dettagli alla moglie, dunque immagina, suppone, si nutre delle poche parole, amplifica la reticenza di lei) diviene circolare, concentrica, indagatoria. Malgrado i ripetuti tradimenti da lui stesso consumati – necessari, a suo avviso, al mantenimento del loro legame affettivo – è disorientato dalla presenza di un terzo, un giovincello, «ignorantissimo» per altro, che si frappone fra lui e Silvia. Carlo avverte il pericolo: il presagio si palesa nella bocca, alle narici, ovunque. È un odore dolciastro e ferroso, già noto, così conosciuto: l’odore del sangue.

Fanny Ardant e Michele Placido ne L'odore del sangue (2004)
Fanny Ardant e Michele Placido ne L’odore del sangue (2004)

Tutti i tradimenti di Carlo, persino quello consumato con la sua ultima amante, Paloma, rappresentano una banale fuga da se stesso, dalle sue puntuali ossessioni: l’angoscia della vecchiaia, l’incubo della morte. Attraverso la ragazza Carlo si illude di scampare alla noia coniugale, una noia potente e oscura, «simile alla malattia». Fugge insomma dall’immagine di Silvia, da quella moglie ancora bella e seducente ch’eppure porta i suoi anni per quello che sono: la sua età le si legge in faccia. Fugge da un viso che spesso, in talune espressioni, si deforma rivelando orrende smorfie da vecchia. Non vuole vivere il decadimento di lei, non sopporta il cedimento della moglie che s’accompagna, inesorabile, al suo stesso declino, al tormento di una morte che si fa sempre più vicina, che attende, silenziosa e paziente. Si getta dunque in un turbine di sesso, fa l’amore anche sette volte al giorno, vive appieno la sua passione per Paloma, non la indaga, la divora senza senno. Eppure, dopo poco, ecco subentrare il mutismo, il vuoto delle conversazioni. La noia ricomincia, implacabile: è ovunque e pure lei, come la signora dall’ampia falce, lo attende, lo aspetta. Carlo, per tutta la vita, ha tacitamente rimproverato a Silvia la sua accondiscendenza, il suo carattere materno, poco sensuale. Ed è attraverso l’avventura della moglie, dinnanzi all’evidenza di una forte sessualità che Silvia indirizza ad un altro uomo – ad un ragazzo – che Carlo è gettato nel disorientamento: si abbrutisce, diviene violento, non si dà pace.

Tuttavia la vicenda, che potrebbe presentarsi come una semplice divagazione sulla gelosia, si tinge fin nel suo incipit di tonalità feroci. Il romanzo non dà tregua nella sua ripetitività, nelle conversazioni dei due coniugi che si consumano senza avere mai una fine. Le parole ritornano sempre uguali, concentriche, allucinate. I fantasmi di Carlo non sono dissipati dalla reticenza di Silvia, eppure, come nella scrittura di Parise, si intuisce dell’altro: v’è l’indizio per altri retroscena, più cupi, ben più atroci, che si disvelano con lentezza, con la crudeltà fredda di una tortura che accompagna le pagine una dopo l’altra.

È raro trovare nella letteratura italiana di quegli anni, così fermamente rinchiusa in stilemi che condannavano l’autobiografismo, l’io, la trasposizione del sé e che anzi aderivano a prepotenti forme di sperimentalismo e di militanza politica, una vicenda così intima e personale divenuta terapia, trasformata in creazione. Parise conosceva dunque quell’odore di sangue nel suo aroma dolciastro e vagamente esilarante, «dolcemente nauseabondo»: un odore che non lo abbandonerà nella scrittura – asfittica, tremenda, implacabile – e che non risparmierà nemmeno il suo alter ego Carlo, il marito narratore, l’ossessionato ora vittima ora carnefice. Quell’odore forte, pungente, molto simile a quello dei macelli all’alba, segue la brutalità delle parole. La scrittura diviene qui, come direbbe Massimo Recalcati, «il nome ultimo della vita» poiché inscindibile dalla realtà, dalla testimonianza.

Roma 1979. Photo © Carlo Tosti
Roma.
Photo © Carlo Tosti

Per Carlo, per Parise, l’odore del sangue è certamente l’odore della vita, della creatività, della forza. Eppure perché esserne attratti, quasi ossessionati? Il sangue è una metafora: sintomo della brevità delle cose, allude alla sostanza di cui siamo fatti che è labile, fragile, eppure violenta, può ingenerare la vita e al contempo levarla, ucciderla. Il suo odore eccita e al contempo impaurisce, richiama al cuore del mondo e a tutto ciò che vi è di oscuro e indecifrabile come l’amore, il sesso, la sensualità. E ancora la morte.

Il coraggio di una simile operazione fu ben compreso da Garboli che intuì come Parise fosse stato uno dei pochi ad aver trovato la forza per guardare la Medusa dritta in viso. Ma senza voltarsi, senza mai chiudere gli occhi.

[1] Simonetta Fiori, Giosetta Fioroni: “Con la gelosia Goffredo trovò la gioia feroce del sesso”, Repubblica, 15 agosto 2015.

Ilaria Moretti

 


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1 Comment

  1. Scusate se mi permetto, ma è lo psichiatra a chiamarsi Filippo, mentre il nome Carlo non compare mai. Lo stesso ragazzo rimane senza nome per tutto il romanzo.

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