Opera unica nel panorama della letteratura latina, capace di tenere svegli persino gli alunni più refrattari durante l’ora di lezione, il Satyricon di Petronio è il testo più scandalosamente licenzioso che sia stato tramandato sino a noi. Impossibile incasellarlo in un genere letterario preciso (è satira? Parodia? Fabula milesia?), tanto che il modo più preciso di definirlo è, senza dubbio, frammento narrativo in forma di prosimetro. Un pastiche vero e proprio, per impianto stilistico e linguaggio impiegato.
L’ironia è cifra stilistica dell’intero testo, riscontrabile tanto nelle battute salaci quanto nell’assoluto rovesciamento di schemi classici collaudati; dall’impianto del romanzo greco – dalla trama stereotipata e costantemente ripetuta – si passa infatti a un più licenzioso racconto d’avventura, fatto di amori omosessuali e avventure occasionali. Alla giovane coppia separata dagli eventi e poi ricongiunta si sostituisce un ménage spesso à trois con diversi attori, tutti disperatamente votati al godimento sessuale. L’amore casto cede il passo alla lussuria e l’ambiguità regna sovrana nei rapporti intrapresi dai protagonisti.
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Perno del racconto è Encolpio, da molti indicato come alter ego di quel Petronio «elegantiae arbiter» menzionato da Tacito nel XVI libro degli Annales; passionale, vulnerabile e troppo spesso timido, il giovane si divide con l’immaturo e “multiforme” Ascilto le grazie e i favori del marcantonio Gitone. Questo, condottiero fiero e possente, insensibile e ambiguo, è il vero oggetto del desiderio di tutti i personaggi, donne o uomini che siano. Ammaestrato da Quartilla ai piaceri del sesso in uno dei postriboli più ignobili, il bel giovinetto attira via via l’attenzione di Eumolpo (laido poeta dalle trovate liriche discutibili) e di Trifena (donna di facili costumi neanche troppo velati).
Proprio sulla nave in cui Gitone si concede, mascherato e truccato da donna, ai desideri della fanciulla, Eumolpo dà vita a uno dei passaggi più erotici dell’opera; si tratta della rievocazione di un’avventura amorosa da lui intrapresa durante un soggiorno a Pergamo con un fanciullo di cui era diventato precettore. Un rapporto non pedagogico, di certo poco educativo: «l’efebo, nel pieno dello sviluppo, aveva una gran voglia di farsi fare, come tutti quelli della sua età». Un’iniziazione, se vogliamo, ma tutta rivolta al piacere sessuale di Eumolpo, pronto a trascinare nella spirale della libido un giovane in età di sviluppo. Il racconto del sedicente poeta appare poi una chiara degradazione del discorso di Pausania nel Simposio platoniano:
«Essi amano teneramente il sesso per natura più forte e intelligente. E proprio da questa inclinazione ad innamorarsi dei ragazzi si possono riconoscere quanti sono posseduti con purezza da questo Eros, perché essi non amano i giovani prima che abbiano dato prova d’intelligenza. Ora, questo è impossibile che accada prima che i giovani siano abbastanza grandi da avere la prima barba. È questa l’età, io credo, in cui è bene cominciare a rivolgere ad essi attenzioni d’amore, per restare poi con loro per tutta la vita, per legare le proprie esistenze, piuttosto che abusare della credulità di un giovane sciocco, farsi gioco di lui e piantarlo poi per correre dietro ad un altro. Ci vorrebbe una legge che proibisse di amare i ragazzi troppo giovani: così non si sprecherebbero tante cure per un risultato imprevedibile. […] L’uomo che vale si pone senza dubbio da sé, e di buon grado, questa legge».
Non c’è alcun interesse da parte di Eumolpo a legare la sua esistenza a quella dell’ingenuo puer anzi, questi quasi abusa del fanciullo facendo leva sulla sua credulità mediante regali falsamente spacciati per offerte agli dei: «mi saziai dell’intero suo corpo, senza peraltro arrivare al piacere estremo; io potei dapprima riempirmi le mani delle sue tettine lattee, poi incollarmi alle sue labbra baciandolo e, alla fine, far sfociare tutte le mie voglie in un orgasmo supremo».
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Altro capolavoro di lussuria è poi il racconto della matrona di Efeso («tam notae erat pudicitiae») che, secondo lo schema proprio delle fabulae milesiae importate nell’Urbe da Cornelio Sisenna, presenta una situazione paradossale e ai limiti dell’assurdo, in cui ogni apparenza è smascherata e a regnare sono il sesso e la sua messa in atto. Una donna, disperata per la morte del marito, veglia il suo cadavere giorno e notte nei pressi del luogo della sepoltura assistita da un’ancella che la vede struggersi per il lutto. C’è un soldato, visibilmente scosso dal dolore della donna che, prima con gentilezza poi con ammiccamenti, invita la matrona a concedersi almeno il lusso di mangiare un boccone. Questa, spinta in tentazione dall’ancella furba, accetta, per poi acconsentire a richieste di ben altra statura immorale. Il finale è ironico e induce al riso amaro, ma quel che preme sottolineare è senza dubbio la riproposizione in chiave parodistica del rapporto Didone-Anna-Enea; chiare ed esplicite le citazioni virgiliane («Īd cĭnĕrem aūt mānēs crēdīs sēntīrĕ sĕpūltōs?»), altrettanto individuabili i richiami al massimo poema dell’età augustea. L’ancella/Anna invita la donna/Didone a non struggersi per la perdita del marito e, senza giri di parole, la esorta a concedersi seduta stante alle avances del bel soldato/Enea. Inoltre, nel geniale gioco di simmetrie petroniane, il triangolo amoroso messo in scena nella novella non può che richiamare quello, assai più mobile, tra Encolpio, Gitone e Eumolpo, con la partecipazione straordinaria di Trifena e Lica, padrone della nave.
Petronio si diverte a raccontare vicende assurde e fuori dall’ordinario, ponendosi allo stesso tempo con un atteggiamento di signorile distacco nei confronti di un mondo che ha perso ogni moralità. Il principato di Nerone (della cui corte, forse, Petronio faceva parte) ha segnato il punto più alto di degradazione, non esiste più il bene e il male, i liberti si arricchiscono volgarmente e ogni freno al comune senso del pudore è andato perduto. Con uno stile mimetico in grado di riprodurre il parlato del sottobosco del tempo, l’autore racconta senza intenti moraleggianti quei vizi che ormai hanno corrotto la società romana, ben adagiata su triclini e talami extranuziali. Un vouyerismo autoriale l’hanno definito alcuni, un impareggiabile capacità descrittiva in cui i personaggi sono attori grotteschi di una recita che prevede copioni sfrontati: «Dal che si vede che più del cervello conviene far funzionare l’uccello».
Fonti:
Canali L., L’erotico e il grottesco nel Satyricon, Roma-Bari, Gius. Laterza & Figli Spa, 1986
Conte G.B., L’autore nascosto. Un’interpretazione del Satyricon, Bologna, Il Mulino, 1997
Zammito L., Erotismo e voyeurismo autoriale nel “Satyricon” di Petronio, in “Il cigno nero”, 25 marzo 2015
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